Red Hot Cyber
La cybersecurity è condivisione. Riconosci il rischio, combattilo, condividi le tue esperienze ed incentiva gli altri a fare meglio di te.
Cerca

Mind Uploading: diventeremo immortali viaggiatori interstellari?

Olivia Terragni : 19 Settembre 2021 18:40

Autore: Olivia Terragni

Il Mind Uploading, oramai un termine popolare a molti, è il caricamento – ancor teorico – della mente umana in un computer o in un hardware, che ci permetterebbe di trascendere i limiti dei nostri involucri fisici e quindi – così almeno sembra – vivere per sempre.

Per arrivare a ciò – e ricreare la nostra mente così come la viviamo noi – la scienza sta attualmente cercando di mappare il cervello umano nel tentativo di comprendere le connessioni che producono la coscienza.

Sei un Esperto di Formazione?
Entra anche tu nel Partner program!
Accedi alla sezione riservata ai Creator sulla nostra Academy e scopri i vantaggi riservati ai membri del Partner program.
Per ulteriori informazioni, scrivici ad [email protected] oppure su Whatsapp al 379 163 8765 

Supporta RHC attraverso:


Ti piacciono gli articoli di Red Hot Cyber? Non aspettare oltre, iscriviti alla newsletter settimanale per non perdere nessun articolo

In effetti per riuscire a caricare il vero noi su un hardware – in una serie di 0 e 1 – il problema della coscienza rappresenta una vera e propria sfida con cui dobbiamo fare ancora i conti. Quindi dovremo ancora aspettare – ma il tempo a questo punto è relativo – prima di poter trasferire la nostra coscienza, scaricarla in un avatar locale e poter esplorare nuovi pianeti alla velocità della luce.

Ci si chiede però – e il dubbio è lecito – se questa visione transumanista del futuro sia reale – e saggio – oppure solo un sogno irrealizzabile. Per capirlo facciamo un piccolo passo indietro.

Mind uploading: la coscienza è solo la punta dell’iceberg

“Nel caso aveste pensato che l’anatomia del cervello fosse un problema risolto, vi assicuriamo che non è così”

Van Wedeen, principal investigator Human Connectome Project (HCP)

Anche se infatti molti affermano che la coscienza sia computazionale – teoria computazionale della mente (CTM) – rimane in verità e ancora uno dei più grandi misteri irrisolti dall’uomo – insieme a quello del tempo – che le più grandi menti del mondo non riescono a risolvere.

Poi c’è il problema del libero arbitrio. La capacità di scegliere e agire liberamente sembra infatti una caratteristica familiare della nostra vita quotidiana: noi sentiamo che ciò che facciamo dipende davvero da noi. Ovvero, siamo sinceramente convinti di poter esercitare un controllo significativo su ciò che decidiamo di fare.

Eppure le sperimentazioni nell’ambito delle neuroscienze sembrano aver dimostrato che il cervello non prenda in considerazione la mente prima di agire. Tramite la risonanza magnetica funzionale si è scoperto infatti che un potenziale elettrico insorge nel cervello prima di un movimento, preparando così una decisione imminente prima che la coscienza possa interagire.

In sintesi: il tempo che passa dall’impulso elettrico alla consapevolezza di un’azione è di poche centinaia di millesecondi. Ebbene, si è scoperto che il cervello prende decisioni prima ancora che tu te ne accorga.


There is no spoon

Parte del problema è definire cosa intendiamo per “libero arbitrio”. Ma risultati come questi potrebbero aiutarci a trovare una definizione. È probabile che “la neuroscienza alteri ciò che intendiamo per libero arbitrio”. Frank Tong, Vanderbilt University in Nashville, Tennessee

Tuttavia, questi risultati non sono nemmeno del tutto sufficienti per convincere i neuroscienziati che il libero arbitrio sia un’illusione. Inoltre, osservando l’attività cerebrale – mentre si prendono decisioni – i ricercatori hanno persino imparato a prevedere quale scelta possiamo fare ancora prima di essere consapevoli di aver preso una decisione. Questo mette in difficoltà l’etica, quell’ insieme di norme e di valori che regolano il comportamento dell’uomo in relazione agli altri e il concetto di giustizia stesso. Di questo però ne parleremo alla fine.

Il duro lavoro nel tracciamento dei neuroni: il connettoma e i big data

“Viviamo un’era straordinaria, l’era della genomica. Il vostro genoma è la sequenza completa del vostro DNA. La vostra sequenza e la mia sono leggermente diverse, Per questo non abbiamo lo stesso aspetto. I miei occhi sono marroni, i vostri potrebbero essere blu, o grigi. Ma il genoma non si limita all’aspetto. Come ci dicono i titoli dei giornali, i geni possono causarci malattie spaventose, e forse persino plasmare la nostra personalità, o infliggerci disturbi mentali. I nostri geni, insomma, sembrano avere un potere stupefacente sul nostro destino”.

Sebastian Seung, Massachusetts Institute of Technology (MIT)


Il connettoma, questo sconosciuto.

Si chiama Nematode C. elegans ed è un piccolo verme, lungo circa 1 mm, che vive nel suolo, in regioni temperate. Più di trent’anni fa ne sono state tracciate tutte le connessioni – circa 7000 – tra 302 neuroni, che rappresenta il suo connettoma.

Tutto ciò ha richiesto ben dieci anni di lavoro ed oggi lo stesso lavoro è stato fatto sulla femmina ma nulla ha fornito ancora un modello completo di come il sistema nervoso del verme produce effettivamente i comportamenti.

Se solo pensiamo che l’insieme delle connessioni neurali del cervello umano è circa 100 miliardi di volte più grande, si capisce il ritardo del raggiungimento dell’ambizioso obiettivo. Il nostro connettoma è di gran lunga più complesso: lo schema è simile, ma la quantità di informazioni è enorme, che ci rendono ciò che siamo. E di quelle informazioni oggi ne esiste solo una teoria e solo osservandole al microscopio ci si rende conto di quanto ciò sia complesso. Ricostruire il connettoma umano è una delle sfide tecnologiche più grandi di tutti i tempi. Per questo l’arduo compito sarà affidato a dei supercomputer dotati di intelligenza artificiale che un giorno saranno in grado di analizzare le immagini senza intervento umano. A quel punto la tecnologia potrà trasformare la specie umana.

Ma quanto tempo ci vorrà ancora?

Mind Hacking: cosa succede se mi hackeri la testa?


Vladimir Manyukhin Art copyright

In un probabile futuro una mente caricata su supporto informatico potrebbe correre il rischio venire hackerata. Le menti digitalizzate sarebbero teoricamente libere da minacce biologiche, come le tossine o i virus, ma rimarrebbero aperte a nuovi rischi.

Una volta caricati, i cervelli potrebbero essere esposti a hacking dannosi, quindi alla riprogrammazione, alla sorveglianza o persino potrebbero essere copiati contro la loro volontà. Tutto questo ci porta ad analizzare nuove questioni etiche sempre legate anche alla nostra identità digitale.

Siamo nella fantascienza eppure, la mente che oggi è manipolata con l’ingegneria sociale, potrebbe essere manipolata in un ambiente virtuale. Il nostro essere digitale

diventerebbe così vulnerabile alla coercizione, essere oggetto di ransomware o addirittura essere cancellato.

Tutto ciò se non fossimo in grado di mantenere una certa autonomia, attraverso il controllo effettivo del nostro hardware, di cui dovremmo proteggere l’accesso, sia esso fisico o attraverso le reti.

Mind Uploading: coscienza, libero arbitrio e neurocriminologia

Riprendiamo nuovamente ciò che dicevamo all’inizio e vediamolo anche nell’ottica del Mind Hacking: “osservando l’attività cerebrale – mentre si prendono decisioni – i ricercatori hanno persino imparato a prevedere quale scelta possiamo fare ancora prima di essere consapevoli di aver preso una decisione”.

Tutto ciò mette in serie difficoltà l’etica attuale, che non è altro che l’insieme di norme e di valori che regolano il nostro comportamento in relazione agli altri.

La nostra stessa etica è basata sul fatto che questo tipo di controllo che esercitiamo è anche legato alle nostre responsabilità e alle necessità della legge di determinare la colpevolezza di un indagato ad esempio.

I nuovi dati che emergono nell’ambito della neurocriminologia e del Diritto Penale – ad esempio che le decisioni siano la conseguenza di una serie di reazioni fisico-chimiche – pongono le basi per una nuova cultura della punizione, questo significa che si potrebbe “passare dal concetto di giustizia riparativa rispetto a quello di giustizia retributiva”.

“Se a decidere è il cervello e non la mente, come è stato possibile nel corso dell’evoluzione che i nostri circuiti cerebrali si siano organizzati in modo tale da creare delle regole di convivenza?”

Ad oggi su questa questione si ha bisogno di sviluppare nuove linee guida per i magistrati in parallelo agli sviluppi tecnologici e non possiamo che concludere questo capitolo con una domanda: come andrebbe dunque riscritta la responsabilità penale, basata invece oggi sulla capacità di auto determinarsi? Quale pena si può infliggere al colpevole? E nell’ultimo caso analizzato qui sopra, come determinare la colpevolezza di una mente hackerata?


Inganna la morte ma non lamentarti se rimani senza cappuccino

Il sogno di ogni essere umano – o quasi – è quello di ingannare la morte. Molti oggi ci provano facendo criogenizzare il proprio cervello o l’intero corpo in Arizona: e lì, sospesi nel nitrogeno liquido, attendendo una civiltà futura avanzata, sono loro quelli ottimisti.

Anche perchè, ad oggi, non c’è nemmeno nessuna prova – esistente – che un cervello congelato possa essere recuperato. La morte e il congelamento attualmente danneggiano il cervello in modo irreversibile.

Ci sono così molte sfide da affrontare e ancora molte scoperte da fare per poter caricare la nostra mente su un hardware, ma di una cosa vogliamo essere certi.

Vogliamo essere sicuri al 100% di essere noi quelli “là dentro”.

Il filosofo David J. Chalmers parla di due tipi di certezze a partire dal metodo di caricamento.

Il primo è un caricamento di tipo non distruttivo ove il cervello che viene scansionato – fettina per fettina con una tecnologia di imaging non ancora disponibile – lascia intatto quello originale (magari congelato) e trasferisce invece la copia in un computer. Ma quella è logicamente una copia e non siamo noi, è una versione di noi.

Come diventerà quando noi moriremo?

Si impossesserà delle nostre vite e delle nostre future esperienze?

Nel caricamento distruttivo, la nostra mente originale viene distrutta durante il processo di trasferimento. Nessuna copia nel cloud, senza il nostro corpo. In modo logico il pensiero filosofico continua a dipanarsi senza fine.

“Se pensiamo che la copia non siamo noi quando siamo in giro, perché dovrebbe essere diversa quando non siamo più presenti?”

In ciascuno dei due casi, copia o meno, ora immaginiamo che il nostro cervello si trovi su un hardware. Non possiamo certo descrivervi come ci si trova in mezzo tra processori, interfacce e RAM, ma secondo il fisico-informatico e simpaticissimo Seth Lloyd, se fossimo caricati con successo su un cloud, non potremmo uscire per bere un cappuccino, e alla fine penseremmo di aver stretto un patto faustiano per definizione.

Ci sono molte storie su persone che desiderano vivere per sempre all’interno delle tecnologie che usano. Non ricordo mai nessuno che abbia funzionato bene, a meno che forse non conti il ​​Nuovo Testamento, e non sono sicuro che dovremmo contare quello. Seth Lloyd

Un’ultima domanda, forse meno improbabile.

Guardando alla natura. Se riuscissimo a divenire immortali, come cambierebbe il nostro senso di sopravvivenza?

Quale nuovo significato assumerebbe la vita?

Quale significato assumerebbero le emozioni?

Olivia Terragni
Autore, ex giornalista, laureata in Lettere e Filosofia con indirizzo storico-economico e poi in Architettura, ha poi approfondito i suoi studi in Network Economy e in Informations Economics, conclusi con un Master in Cyber Security e Digital Forensics e un Master in Filosofia e Governance del Digitale. Appassionata di innovazione tecnologica e sistemi complessi e della loro gestione nell’ambito della sicurezza e della loro sostenibilità in contesti internazionali. Criminalista. Velista ottimista.