Ilaria Montoro : 16 Novembre 2022 08:00
Autore: Ilaria Montoro
Come già riportato in un nostro articolo dei giorni scorsi, la notizia di un visore per la realtà virtuale, ma di sola installazione artistica, che è in grado di uccidere per davvero quando si muore nel videogioco, inserendo tre cariche esplosive rivolte direttamente alla parte anteriore del cervello in un Meta Quest 2., ha mosso un po’ di riflessioni.
Mi ha spinto a riflettere sulla relazione tra corpo, spazio e tempo nell’universo audiovisuale contemporaneo: la logica del videogame legato al tema del “videogiocatore” intrappolato nel videogioco” (si veda Tron e il sequel, Tron Legacy, ma anche la nota puntata di Black Mirror, Playtest – E2S3.)
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Ma procediamo con ordine e diamo un assaggio di quello su cui verterà questo articolo: Paura. Perché se l’atmosfera è “qualcosa insita nell’aria” questo qualcosa è terrore.
Oggi tutto sembra aver radice nel «mediashock» (accezione di Grusin), nell’ottica di una Industrializzazione della percezione, reso massimamente visibile in serie televisive come Black Mirror, rendendo quindi trasparenti gli smottamenti culturali che scuotono gli immaginari sociali, e ridisegnando la relazione fra corpi, tecnologie e ambienti.
Casi concreti di questo nuovo tipo di relazione intrinseca può essere benissimo rappresentata dal già noto fenomeno dello Swatting: una pratica particolarmente diffusa nelle community di videogiocatori online che consiste in un atto intimidatorio o lesivo ad un altro partecipante di una partita, attraverso l’invio di una squadra della polizia nella sua abitazione, intervento che di norma vede protagonista una squadra SWAT (Special Weapons and Tactics), corpi speciali dei dipartimenti di polizia metropolitana delle città U.S.A.
Si tratta di atti particolarmente gravi, a causa delle oggettive maniere non proprio morbide di questi agenti, che spesso ricorrono ad un intervento violento per annientare “possibili minacce “, usando le proprie armi di ordinanza (veri e propri fucili d’assalto) per annientarle.
Ma lo Swatting è un fenomeno molto più complesso e variegato (e, per questo, preoccupante) di quanto possa sembrare. Se è vero che a far scalpore sono i suoi casi legati al videogioco, in realtà lo swatting è ormai talmente endemico da essere un fenomeno relativo alla società statunitense, al di là dell’ambito del gaming: per esempio, non tutti sanno che lo swatting è stato applicato anche contro abitazioni di celebrità. Qualche nome: Ashton Kutcher, Snoop Dog, Miley Cyrus e persino Clint Eastwood. Quel che emerge è un quadro se possibile anche più preoccupante di quel che pensiamo per due motivi.
Primo, perché sorge la consapevolezza di come la narrazione dei media si focalizzi su una sostanziale semplificazione del fenomeno vedendolo soltanto come qualcosa di interno alle comunità di giocatori; in secondo luogo, perché mette in luce la fragilità non tanto delle communities del videogioco, quanto dello stesso sistema di informazione e di “virtualizzazione dei sentimenti!”.
Partendo da questo punto e andando oltre le cronache in arrivo da oltreoceano, riflettiamo per un attimo su quanto solo la minaccia di gravi conseguenze può far sembrare un gioco reale per ogni persona presente in un gioco, come ha anche riportato Luckey in un post sul proprio blog ufficiale.
“In questo modo si alza immediatamente la posta in gioco, le persone devono pensare radicalmente alla loro strategia di gioco”.
Palmer Luckey
Il tema della morte ha invaso molti dei generi più importanti di videogiochi. L’oscuro e tetro stile fumettistico di Doom, con i suoi grotteschi e colorati corpi ridotti a brandelli da invasori demoniaci o Bloodborne, con le sue catastrofiche visioni di corpi umani pietrificati, dissolti, riconfigurati. Questi sono solo piccoli esempi di giochi che si divertono a trasgredire i tabù sulla morte, la sofferenza e il corpo umano. Non troviamo che paradossi relativi a ciò che crediamo di conoscere in merito al nostro corpo venuto a contatto con le tecnologie immersive, del controllo, delle realtà virtuali, del gaming.
A partire dall’asse che vede il corpo in relazione con la morte, si potrebbe così declinare una corpografia distopica in corso, dal corpo-prigione o del modo di punire, al corpo-valutazione o del controllo, con ciò intendendo la capacità di rendere oggettivo e reale quanto prefigurato nei plot più cupi e surreali.
E quali atmosfere coltiva Black Mirror in questo scenario? Indubbiamente un’atmosfera avvolta nell’ipertecnologia, come una folla di personaggi che esternalizzano pubblicamente i ricordi personali memorizzati nei loro chip impiantati dietro l’orecchio, caratterizzandosi al contempo come memoria personale e dispositivo di controllo e sorveglianza.
Tirando le somme, potremmo quindi definire, come Black Mirror anticipa in qualche modo una rappresentazione di ambienti tecno-estetici, quasi a creare un’identificazione fra la realtà che è già attorno a noi e quella che ci viene proposta sullo schermo. Un’atmosfera distopica che coinvolge ampiamente il livello emotivo dei suoi spettatori tra il tecnologico e il sociale.
Tutto questo è ben espresso in Playtest (Giochi pericolosi, E2S3 della serie), che gioca col genere horror partendo dallo schermo ormai convenzionale di un protagonista che viene proiettato dentro i meccanismi (pericolosi, appunto) di un gioco virtuale: al protagonista Cooper viene inserito un “fungo neurale” che gli permette di entrare in una realtà virtuale popolata di ologrammi che diventano sempre più realistici. E persino il cellulare interagisce tragicamente col (video)gioco, portandolo alla follia.
Il corpo riveste in questo caso un’opportunità di resistenza e performance. Potremmo definire quindi come la puntata, con una vena horror, ci parla dei rischi della fuga dalla realtà: è proprio il bisogno di evasione che porta il protagonista a spingersi oltre i limiti delle sue percezioni, accettando di fare da tester per la sperimentazione di un singolare progetto sulla realtà aumentata.
Dopo aver indossato un dispositivo molto simile agli occhiali utilizzati per la realtà virtuale, inizia a vedere degli ologrammi, delle immagini in alta definizione. Il chip è, in grado di riconoscere le paure e gli stati d’animo del giocatore, per poi renderle reali ai suoi occhi. Nell’ordine, Cooper dovrà vedersela con un ragno gigante, con il bullo delle superiori, con la madre in preda ad un alzheimer che non ha mai avuto.
Alla fine Cooper verrà sopraffatto dal progetto malsano della Saito Gamer e anche lo spettatore non può che cadere e rimanere imbrigliato nelle trame intricate di questo episodio, che mette a repentaglio la logica e la stabilità emotiva di chi guarda. In estrema sintesi, potremmo quindi definire come Brooker ci spinge ad una riflessione incentrata sul tema fuga dalla realtà vs. l’impossibilità di scappare dalle proprie paure e dalla propria realtà interiore.
Realtà virtuali create grazie ad avanzate interfacce cervello – macchina. Ed è solito in Black Mirror il presentarsi di considerazioni sul concetto morte, o meglio, di morte del corpo umano: da un accumulo di dati digitali, si tenta di creare il simulacro di un individuo.
E se una cosa risulta certa in questo scenario è che la rivoluzione digitale (con le sue patologie), ha travolto i comportamenti ma non ancora le consapevolezze e le categorie interpretative.
Presupposto retorico e scontato: non sono mai solo le idee o gli interessi a creare qualcosa di dannoso, ma la struttura sociale nel quale quelle idee crescono.
Creare inquietudine, mettere in contatto con le paure condivise in un contesto determinato dal dominio delle tecnologie. E il risultato, sembra essere quello di uno specchio in cui ognuno può ritrarsi, trovando solo un’immagine opaca e sfocata: una sensazione di rottura della quarta parete, per proporci un contatto diretto con le diverse storie, dove i protagonisti in fondo siamo noi.
“Perché oggi un gioco ti deve sfondare le viscere e farti stridere i denti dalla tensione fino alla fine, e anche dopo”