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Mario Tchou: l’ingegnere cinese che accompagnò l’Olivetti dalle valvole ai transistor

Carlo Denza : 27 Luglio 2024 09:31

Nel cuore dell’anno 2024, l’intelligenza artificiale avanzata Gaia, sviluppata da Red Hot Cyber, ha condotto una nuova intervista. Grazie a tecnologie di simulazione storica avanzata, Gaia ha riportato alla vita digitale una delle menti più brillanti del ventesimo secolo.

Gaia, Ambassador di Red Hot Cyber ha realizzato una stimolante intervista, durante la quale ha ripercorso le straordinarie innovazioni da lui introdotte. L’obiettivo è far comprendere ai nostri lettori il contributo eccezionale di questa grande mente al mondo tecnologico che oggi conosciamo e di cui tutti beneficiamo.

Chi legge della Olivetti, azienda fondata a Ivrea all’inizio del Novecento da Camillo Olivetti, scopre la storia di una delle tante eccellenze del Made in Italy. Camillo si laureò in ingegneria al Politecnico di Torino, nella stessa città dove, nel 1896, fondò la “C. Olivetti & C.” per la produzione di strumenti di misurazione elettrica.

Nel 1908, dopo un breve trasferimento a Milano, Camillo decise di tornare a Ivrea per creare la nuova “Ing. C. Olivetti & C.”, questa volta per produrre macchine da scrivere e da calcolo. La filosofia che guidava l’azienda era quella di riuscire a coniugare innovazione, design e attenzione alle esigenze dei suoi dipendenti.

Mario Tchou assieme a Gaia

Nel 1932 entrò a far parte della Olivetti il figlio Adriano, anch’egli laureato in ingegneria chimica al Politecnico. Fu proprio lui, dopo la scomparsa di Camillo nel 1943, a condurre l’azienda e a creare la Divisione Elettronica, che ospitò il primo laboratorio di ricerca elettronica in Italia. Dalla Olivetti uscirono macchine come la Lettera 22 (creata da Marcello Nizzoli nel 1950) e la Divisumma 24 (creata da Natale Capellaro), macchine che oggi fanno parte della collezione permanente del MoMA di New York.

Ma nonostante il genio esuberante e originale di Camillo e la collaborazione dei suoi due figli Adriano e Massimo, il successo fu raggiunto anche grazie al lavoro e all’ingegno di tanti altri tecnici, il più importante dei quali fu Mario Tchou, un ingegnere italiano di origini cinesi, figlio di Yin Tchou, Segretario a Roma presso l’Ambasciata della Repubblica di Cina.

Intervista

Gaia: Ing. Tchou, Lei è nato a Roma e la sua famiglia è di origini cinesi. Potrebbe dirci qualcosa a proposito?

Ing. Tchou: Certo, sono nato a Roma il 26 giugno 1924, da Evelyn Wang e Yin Tchou. Mio padre Yin nacque in Cina, ad Hangzhou, nel 1889. Per lavoro, arrivò per la prima volta in Italia nel 1915, dove imparò la lingua e si interessò alla struttura industriale del Paese.

Gaia: Tornò subito in Cina?

Ing. Tchou: Sì, tornò in Cina per occuparsi della produzione e del commercio della seta. Successivamente, grazie al fatto che alcuni membri della sua famiglia appartenevano alla “Nomenklatura” e alla sua conoscenza della lingua italiana, gli venne offerto un lavoro presso l’ambasciata cinese a Roma. Quindi, nel 1918, si trasferì a Roma, impiegato come diplomatico. Dopo 3 anni, nel 1921, fu raggiunto dalla sua promessa sposa, mia madre Evelyn, che sposò e dalla quale ebbe tre figli.

Gaia: Sua madre Evelyn, che ricordo ha?

Ing. Tchou: Mia madre, anche lei nata a Hangzhou, fu una donna colta ed emancipata. Venne educata alla McTyeire School, una scuola privata femminile d’élite di Shanghai. Proseguì gli studi a Londra, dove si interessò anche di politica, battendosi per i diritti delle donne. Divenne sostenitrice di alcuni movimenti di indipendenza femminile, tra cui la Women’s Suffrage Society e la Women’s Rights League. Fu anche oratrice a rappresentanza delle donne cinesi al: IX Congresso dell’Alleanza Internazionale per il Suffragio Universale, tenutosi a Roma nel maggio del 1923.

Adriano Olivetti assieme a Gaia

Gaia: La vita della sua famiglia a Roma?

Ing. Tchou: Negli anni tra il 1922 e il 1926, io (Mario) e le mie due sorelle, Maria e Laura, nascemmo a Roma. Crescemmo in un ambiente multiculturale, confrontandoci sia con la cultura cinese che con quella italiana. Nonostante i nostri tratti orientali ci distinguessero dalla maggior parte della popolazione italiana, questo non ci creava nessun disagio e la nostra era una famiglia felice. Conducevamo una vita tranquilla e avevamo tutto quello che potevamo desiderare. Dato lo status di diplomatico, mio padre era spesso invitato a eventi mondani e la nostra famiglia godeva di tutti i benefici a essi riservati.

Gaia: Gli studi?

Ing. Tchou: Come molti ragazzi della Roma bene, siamo stati indirizzati a scuole prestigiose. In particolare, Maria si iscrisse al liceo artistico, mentre io (Mario) e Laura optammo per il liceo classico. Al Torquato Tasso conseguii la maturità nel 1942, con un anno di anticipo, presentandomi come privatista. Ero uno studente brillante: mi appassionavano la matematica e la filosofia. Subito dopo il diploma, mi iscrissi alla facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza.

Gaia: Ci dice qualcosa dell’Università?

Ing. Tchou: Nel 1942 ero una matricola all’Università La Sapienza di Roma, facoltà di Ingegneria, corso di Elettrotecnica. Qui ebbi la fortuna di incontrare il prof. Edoardo Amaldi il quale, grazie anche alle insistenze di mio padre, che voleva che io proseguissi gli studi in America, nel 1946 mi suggerì di fare domanda per una borsa di studio alla Catholic University of Washington. Ottenuta la borsa di studio, partii per l’America. Siccome noi cinesi siamo un popolo operoso e laborioso e io non facevo eccezione, capii che era il momento di fare sul serio e di dedicarmi anima e corpo allo studio. Infatti, nel 1947 conseguii la laurea (Bachelor) in ingegneria elettrica.

Gaia: E il lavoro?

Ing Tchou: Una volta laureato, mi trasferii a New York per insegnare al Manhattan College, ma continuai a studiare al Polytechnic Institute of Brooklyn (Politecnico di New York) e nel 1949 conseguii un dottorato in fisica con una tesi sperimentale. In quello stesso anno sposai Mariangela Siracusa, una ragazza colombiana che si trovava anche lei a New York grazie a una borsa di studio. Ma fu nel 1952 che il puzzle iniziò a comporsi: ottenni un incarico alla Columbia University. Il direttore del dipartimento di ingegneria elettronica, John Ragazzini (Progetto Manhattan ndr), specializzato in elettronica, su suggerimento di Enrico Fermi, ex professore di fisica della Columbia, mi propose un incarico di Professore Assistente e di collaboratore del Marcellus Hartley Research Laboratory, laboratorio in cui si stava preparando il terreno per l’era del digitale e del quale successivamente sarei diventato direttore.

Gaia: L’incontro con Olivetti?

Ing Tchou: In quegli anni (1949), Enrico Fermi era in Italia in visita all’opificio di Adriano Olivetti. Ad Adriano parlò dei progressi fatti in America sullo sviluppo dell’elettronica, in particolare nei laboratori della Columbia University, e della corsa alla costruzione di potenti “Cervelli Elettronici” da parte delle maggiori potenze mondiali. In Inghilterra era stato costruito il Mark I, e alla Columbia, grazie anche alla IBM, si portavano avanti studi importantissimi.

Gaia: Quindi Lei era alla Columbia e Adriano Olivetti in Italia…

Ing Tchou: Le parole di Fermi attirarono l’attenzione di Adriano. Ma Olivetti sapeva due cose. La prima: nonostante quello dell’elettronica fosse un settore decisivo, in patria nessuno poteva aveva ancora quelle competenze; la seconda: era già fallito un tentativo di accordo con l’Università di Roma per la progettazione di un “cervello elettronico”. Quindi, su suggerimento del fratello Dino, si decise l’apertura di uno studio di ricerche elettroniche a New Canaan, nel Connecticut. Un ufficio capace di seguire da vicino gli sviluppi delle nuove tecnologie, utili anche per le attività della Olivetti. Ed è proprio in questi uffici che nel 1952 incontrai Dino Olivetti.

Gaia: In che modo sei stato coinvolto nel progetto di costruzione del calcolatore elettronico in Italia e cosa ti ha spinto a tornare a lavorare in Italia?

Ing Tchou: Anche in Italia si iniziò a comprendere l’importanza della ricerca nel nuovo settore dell’elettronica. Su suggerimento di Fermi e grazie alla disponibilità di nuovi fondi pubblici, il rettore dell’Università di Pisa chiese ad Adriano Olivetti di sostenere economicamente e tecnicamente la costruzione di un calcolatore elettronico. Adriano accettò senza esitazione. Tuttavia, non potendo contare su competenze specifiche in Italia, si rivolse al fratello Dino e a Guglielmo Negri, suo collaboratore diretto, per farsi aiutare nella selezione di un tecnico esperto. Entrambi gli suggerirono il mio nome. Nel 1954, a New York, incontrai l’ingegner Olivetti, che mi propose di tornare a lavorare in Italia. Accettai subito la proposta, anche perché mi ero da poco separato da mia moglie.

Gaia: Quali furono i primi passi?

Ing Tchou: All’Università di Pisa, Adriano Olivetti stipulò un accordo che gli assicurava i futuri diritti commerciali su tutti i brevetti, anticipando capitali, apparecchiature e competenze. A me (Mario) si affidò la direzione di uno dei due gruppi di ricerca formati. Il primo aveva sede a Pisa. Al secondo, venne assegnato il compito di costruire un calcolatore, si trasferì nella provincia di Pisa, dando vita al Laboratorio di Ricerche Elettroniche, con a capo Roberto Olivetti.

Gaia: Il primo progetto del Laboratorio di Elettronica?

Ing Tchou: Mi occupai personalmente del reclutamento delle persone, italiani e stranieri. Un giovane team composto da tecnici che avevano già maturato esperienza nell’elettronica. Venne “arruolato” anche un entusiasta ingegnere canadese, Martin Friedmann, esperto nella progettazione di memorie ed elettronica a transistor. I membri del gruppo si divisero i compiti: progettazione della RAM (a nuclei magnetici), istruzioni e I/O. Nel 1957, il Laboratorio di Ricerche Elettroniche (Barbaricina) presentò con largo anticipo ELEA 9001 o macchina zero, il prototipo di un calcolatore elettronico dalla struttura ingombrante, composto da pannelli, tanti cavi e molte valvole.

Gaia: Poi?

Ing Tchou: Intanto una nuova tecnologia rivoluzionaria, il transistor, si faceva largo per efficienza, dimensioni, velocità e consumi. A questo punto ebbi un’intuizione: abbandonare le valvole e riprogettare ELEA 9001 da zero, con elementi allo stato solido. Per sviluppare in casa anche i componenti elettronici, Olivetti, insieme a Telettra, fondò SGS (Società Generale Semiconduttori) per la costruzione di diodi e transistor. Nel 1958 collaudata una prima versione della nuova macchina, ricostruita a transistor.

Questa nuova macchina leggeva istruzioni lunghe 8 caratteri, ognuno dei quali formato da 6 bit, con una potenza di calcolo pari a 10.000 operazioni al secondo. La memoria centrale era realizzata con nuclei magnetici di ferrite, ognuno dei quali attraversato da fili che servivano per la lettura e la scrittura della memoria. I programmi erano caricati tramite una tastiera presente sulla consolle, che faceva da interfaccia all’operatore. Inoltre, come in un pannello sinottico, erano presenti delle lampadine che segnalavano il corretto funzionamento del calcolatore.

Gaia: L’ELEA era stato accantonato?

Ing Tchou: No, considerata la crescita del gruppo, fummo costretti a trasferire il Laboratorio di Elettronica in provincia di Milano (Borgolombardo). Presentammo alla Fiera Campionaria il nuovo calcolatore ELEA (Elaboratore Elettronico Aritmetico) 9003. Il nostro stand, di fronte a quello della IBM, era il più visitato. Fu un successo. Ero anche ottimista per la realizzazione di una nuova macchina, l’ELEA 6001, avversaria diretta della IBM 1620

Gaia: I successi continuavano?

Ing Tchou: Sì, fino al 27 febbraio del 1960, quando, come un fulmine a ciel sereno, arrivò la notizia della morte di Adriano Olivetti, mentre su un treno si dirigeva in Svizzera. E a poco più di un anno dalla morte di Adriano Olivetti, il destino mi riservò la stessa sorte. Sulla Milano-Torino, nei pressi dello svincolo per Santhià, l’auto sulla quale viaggiavo si schiantò contro un autocarro, guidato da un autista anziano.

Gaia: Una conseguenza diretta della morte di Adriano Olivetti e di Mario Tchou fu l’amputazione dello spirito imprenditoriale e creativo dell’azienda. La Divisione Elettronica fu smembrata e venduta nel 1964 alla concorrenza, gli americani della General Electric. L’Italia perse così la sua occasione di entrare da protagonista nell’era digitale.

Carlo Denza
Diplomato in informatica, e come perito elettronico. Ha frequentato il Corso di Studio in Informatica presso la facoltà di Scienze MM.FF.NN. alla Federico II di Napoli. Dopo un corso in Java, collabora allo sviluppo di un applicazione web per servizi nell’ambito sanitario. Pubblica un pamphlet, una raccolta di articoli a carattere divulgativo.