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Digital Crime: La diffamazione online dal punto di vista Penale

Paolo Galdieri : 25 Giugno 2024 07:33

Art.595 c.p.: Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, comunicando con più persone, offende l'altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino a milletrentadue euro.

Se l'offesa consiste nell'attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a duemilasessantacinque euro.

Se l'offesa è recata col mezzo della stampa  o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a cinquecentosedici euro.

Se l'offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

Il contenuto della norma

La diffamazione perpetrata attraverso l’uso della rete, fenomeno assai diffuso, non ha portato ad un intervento specifico del legislatore, operando in tal caso l’ipotesi aggravata prevista dal III comma dell’art. 595 c.p., che prevede la punizione della diffamazione realizzata non solo col mezzo della stampa, ma anche quella posta in essere “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, all’interno del quale rientrerebbe, appunto, lo strumento telematico.

Trattandosi di una norma non pensata per condotte realizzate in rete, la giurisprudenza è più volte intervenuta per delimitarne l’ambito di applicazione ed i suoi esatti confini.

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    I quotidiani e le testate on line hanno natura del tutto assimilabile a quella dell’informazione su carta stampata e ,quindi, ad essi si applicano le regole relative alla diffamazione a mezzo stampa.

    Tema differente è quello relativo alla responsabilità del direttore ai sensi dell’art.57 c.p., norma che configura una responsabilità a carico del direttore responsabile della testata giornalistica il quale,titolare di una posizione di preminenza organizzativa e gerarchica nell’ambito della redazione,non eserciti il doveroso controllo al fine di impedire che mediante lo strumento editoriale da lui diretto vengano commessi reati. In un primo momento la giurisprudenza ha escluso ogni assimilazione del direttore della testata on line a quello dell’equivalente mezzo di informazione cartaceo, fondando tale conclusione,in via principale, sull’osservanza del principio costituzionale di stretta legalità di cui all’art.25,comma 2,Cost. e del conseguente divieto di analogia in malam partem, affermando che nell’on line mancherebbero i requisiti della stampa come definita dall’art.1 legge 8 febbraio 1948,n.47, secondo il quale essa coincide con >. Successivamente la giurisprudenza, data alla nozione di “stampa”una interpretazione idonea a ricomprendere tutti i giornali, siano essi cartacei o telematici, ha riconosciuto  alle testate giornalistiche telematiche non solo le garanzie costituzionali in materia di sequestro, ma anche l’intera disciplina prevista per gli stampati,comprese tutte le fattispecie incriminatrici e tra esse quella relativa alla responsabilità del direttore per omesso controllo prevista dall’art.57 c.p.

    Per quanto riguarda gli Internet Service Provider (ISP), è evidente che essi debbano rispondere per le violazioni commesse direttamente, come nel caso di un content provider che fornisce personalmente contenuti. Al contrario, è più complesso stabilire la responsabilità dell’ISP per le violazioni commesse da altri utilizzando le infrastrutture di comunicazione. Il quadro normativo pertinente si trova nel decreto legislativo n. 70/2003, emanato per attuare la Direttiva Europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, focalizzata sugli aspetti legali della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare attenzione al commercio elettronico.

    L’articolo 7 di tale decreto definisce gli ISP come “fornitori di servizi in internet”, mentre l’articolo 2 chiarisce che i servizi della società dell’informazione comprendono attività economiche online e servizi indicati dalla legge n. 317/1986, articolo 1, comma 1, lettera b, cioè servizi a pagamento erogati a distanza, elettronicamente e su richiesta individuale del destinatario dei servizi.        Tra questi servizi vi sono, a titolo esemplificativo, l’accesso a Internet e la fornitura di caselle di posta elettronica.

    Tuttavia, ciò che risulta particolarmente rilevante è quanto stabilito dall’articolo 15 della suddetta direttiva 2000/31/CE e, di conseguenza, dall’articolo 17 del decreto legislativo 70/2003. In base a questi articoli, negli Stati membri non è imposto agli ISP un obbligo generale di sorveglianza preventiva sulle informazioni trasmesse o memorizzate, né un obbligo di ricerca attiva di condotte presumibilmente illecite.            

    Non è possibile, inoltre, dedurre una responsabilità penale da fonti diverse. In primo luogo, l’articolo 57 del codice penale è concepito per soggetti completamente diversi e solo in materia di stampa, quindi applicarlo agli ISP sarebbe un’analogia evidente e vietata. In secondo luogo, obblighi simili non sembrano derivare dalle norme sulla protezione dei dati personali, che coprono comportamenti molto diversi rispetto alle diffamazioni.       

    La situazione è invece diversa e più complessa per gli hosting providers. Questi sono obbligati a segnalare prontamente alle autorità competenti le violazioni rilevate e a condividere ogni informazione utile per identificare l’autore della violazione. Se tali soggetti non collaborano con le autorità, potrebbero essere considerati civilmente responsabili dei danni causati. Questa forma di responsabilità successiva dell’ISP trova fondamento nell’articolo 14, comma 1, lettera b) della direttiva sopracitata e nell’articolo 16 del decreto legislativo 70/2003. Gli hosting provider sarebbero responsabili solo se sono effettivamente a conoscenza della presenza di contenuti illeciti sui loro server e non li rimuovono nonostante ciò.            

    Dal punto di vista penale, si potrebbe ipotizzare una responsabilità dell’ISP per concorso omissivo nel reato commesso dall’utente.

    In via generale,la giurisprudenza,prima di merito e poi di legittimità, ha ritenuto che alla diffamazione commessa tramite Facebook o altro social, sia applicabile l’aggravante dell’art.595,comma 3,c.p., nella parte in cui fa riferimento agli >differenti dalla stampa. Tale orientamento  è stato dapprima contrastato dalla giurisprudenza di merito, secondo la quale la pubblicazione sulla pagina social dell’utente può essere visionata soltanto attraverso l’abilitazione all’accesso,costituita dalla c.d. “amicizia” :  ciò le conferirebbe la natura di comunicazione privata con destinatari selezionati e,conseguentemente,  configurerebbe una ipotesi di diffamazione non aggravata dall’uso di un mezzo di pubblicità.

    E’prevalso,tuttavia, l’orientamento opposto,in base al quale, ancorché  limitata ad un ambito di utenti selezionato,la pubblicazione sul profilo Facebook realizzerebbe comunque la pubblicità richiesta al fine di integrare la circostanza aggravante.

    In relazione al like apposto su un contenuto denigratorio,invece,  non vi sono ad oggi precedenti giurisprudenziali anche se di recente è stato disposto un rinvio a giudizio  per diffamazione in un caso di apposizione di  un like a un post denigratorio di un  Sindaco e di alcuni dipendenti comunali.

    Su questo tema, da un lato, vi è chi rileva la possibilità di sostenere la sussistenza del concorso nel delitto di diffamazione, ritenendo che attraverso il like si manifesta un’ adesione piena al contenuto e, dal punto di vista tecnico, si contribuisce a determinare una sua maggiore visibilità. Dall’altro, c’è chi osserva come il like venga nella realtà digitale apposto sovente in modo disinvolto, automatico, senza essere preceduto da un’effettiva riflessione e, quindi, non sintomatico di una piena adesione al  contenuto.

    Considerato che sempre più spesso nei social si registrano commenti e comportamenti troppo disinvolti, il che richiederebbe un maggior senso di responsabilità da parte di tutti,  ed essendo pacifico che sul piano astratto anche un like potrebbe condurre ad una configurabilità di un concorso nel delitto di diffamazione, rimane assai difficile, sul piano eminentemente probatorio, dimostrare esclusivamente attraverso lo stesso il dolo richiesto dall’art.595 c.p. , essendo più agevole provare l’automaticità con la quale in altre occasioni si è messo il like o comunque la non riconducibilità dello stesso al messaggio denigratorio, pensiamo alle ipotesi frequenti in cui il like si appone  ai contenuti di un amico in quanto tale ed a prescindere da ciò che scrive.

    D’altra parte, se passasse la tesi di una compartecipazione al delitto di diffamazione per un semplice like si andrebbe a toccare pesantemente la sfera della libera manifestazione del pensiero nella sua forma minima, ovvero non su quello che si esprime, ma addirittura sulla possibilità o meno di non essere in disaccordo con altri, al di là del modo in cui questi esprimono i loro giudizi.

    Ciò detto , in tema di istigazione a delinquere, è stata riconosciuta rilevanza penale ad un like apposto su Facebook (Cass. , Sez.V, sent. n. 55417/17)

    Altra questione rilevante riguarda la possibile responsabilità del gestore di un blog. Su questo punto, esiste un ampio corpus di decisioni giurisprudenziali, sia di merito che di legittimità, che mostra una certa eterogeneità riguardo all’estensione delle responsabilità del gestore di tali piattaforme.

    In particolare, una parte della giurisprudenza ha considerato il blogger come il direttore responsabile, e di conseguenza, a lui imputabili i contenuti diffamatori inseriti nel blog da altri. Tuttavia, la giurisprudenza prevalente ha adottato un approccio diverso, sostenendo che le norme che attribuiscono responsabilità al direttore e al vice-direttore responsabile di un periodico si applicano solo a soggetti qualificati che assumono tali ruoli in seguito a una nomina specifica ai sensi degli articoli 3 e 5 della legge 8 febbraio 1948, n. 47.  Pertanto, secondo questo ragionamento, non sembra possibile attribuire al semplice gestore di un blog gli obblighi di vigilanza e di controllo sul materiale, che comportano l’obbligo di impedire la commissione di reati attraverso la pubblicazione.

    D’altra parte, la struttura di un blog non è assimilabile a quella di un giornale tradizionalmente inteso, almeno per quanto riguarda gli aspetti penalistici in caso di mancato controllo del materiale caricato da terzi. Di conseguenza, il blogger può essere ritenuto responsabile dei contenuti pubblicati da terzi solo se prende conoscenza della lesività di tali contenuti e li mantiene consapevolmente. In particolare, la mancata attivazione tempestiva da parte del blogger per rimuovere commenti offensivi pubblicati da terzi non equivale a un mancato impedimento dell’evento diffamatorio ai sensi dell’articolo 40, secondo comma, del codice penale, ma piuttosto a una consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore riproduzione dell’offensività dei contenuti pubblicati su un diario gestito dal blogger stesso.

    Le stesse considerazioni possono essere svolte per il moderatore di un forum. Anche in questo caso, infatti, sembrano mancare completamente i presupposti per l’applicazione dell’articolo 57 del codice penale. Il soggetto in questione potrebbe,quindi,  essere chiamato a rispondere solo per concorso nella diffamazione commessa dal soggetto che ha effettivamente diffuso il contenuto lesivo dell’onorabilità altrui.

    In relazione alla  questione della giurisdizione in relazione al luogo del commesso reato, emergono alcune considerazioni. Nel caso in cui il delitto  sia commesso in Italia, con l’agente che opera sul territorio italiano e utilizza un server installato nello stesso paese, la giurisdizione è chiara, poiché l’intero fatto si verifica in Italia e pertanto è soggetto al principio generale di territorialità.

    Allo stesso modo, se l’agente opera in Italia e utilizza un server situato all’estero, la giurisdizione italiana si applica secondo l’articolo 6, comma 2, del codice penale, in quanto il reato è considerato compiuto in Italia.

    La situazione si complica quando l’agente opera all’estero e il server a cui accede è anch’esso ubicato all’estero, ma il messaggio viene ricevuto pure in Italia. La questione qui è se la diffamazione sia considerata un reato di condotta o di evento.

    Inizialmente, le decisioni dei giudici di merito riguardo alla diffamazione su Internet attraverso server esteri hanno concordato sulla mancanza di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana. Si argomentava che se la diffusione dei contenuti diffamatori avveniva al di fuori dei confini italiani, la consumazione del reato doveva ritenersi avvenuta all’estero. Tuttavia, altro orientamento propone una visione opposta, considerando la diffamazione come un reato di evento, ossia un avvenimento esterno all’agente ma collegato al suo comportamento. In questo contesto, il momento consumativo del reato non è la diffusione del messaggio offensivo, bensì la percezione di esso da parte di terzi che sono “terzi” rispetto all’agente e alla persona offesa. Di conseguenza, se la percezione avviene in Italia, il reato può essere considerato commesso sul territorio italiano. Stesse considerazioni devono essere svolte in tema di competenza per territorio.

    Posto, quindi, che il delitto di diffamazione via Internet  è   un reato di evento che si consuma quando i terzi percepiscono l’espressione offensiva, quando non sia possibile individuare il luogo di consumazione del reato e sia invece possibile individuare il luogo in remoto in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato, tale criterio di collegamento,  in quanto prioritario rispetto a quello di cui all’art.9 c.p.p. comma 2 (che attribuisce la competenza al giudice della residenza, dimora o domicilio dell’imputato), deve prevalere su quest’ultimo, cosicché la competenza risulta individuabile con riferimento al luogo fisico ove viene effettuato l’accesso alla rete per il caricamento dei dati sul server.

    Cosa dice la giurisprudenza

    Trattandosi di una norma non pensata per condotte realizzate in rete, la giurisprudenza è più volte intervenuta per delimitarne l’ambito di applicazione ed i suoi esatti confini.

    Esempi di diffamazione on line

    E’ punibile come fatto di diffamazione l’offesa comunicata via WhatsApp perché la comunicazione nella chat di gruppo opera tra i partecipanti sempre in modo asincrono (Cass. Sez.V, sent. n. 27540/23).

    L‘utilizzo della posta elettronica non esclude la sussistenza del requisito della “comunicazione con più persone” anche nella ipotesi di diretta ed esclusiva destinazione del messaggio diffamatorio ad una sola persona determinata, quando l’accesso alla casella mail sia consentito almeno ad altro soggetto, a fini di consultazione, estrazione di copia e di stampa, e tale accesso plurimo sia noto al mittente o, quantomeno, prevedibile secondo l’ordinaria diligenza  (Cass.,Sez., Sez.V,sent.n.12826/22).

    E’ qualificabile come diffamazione la pubblicazione di messaggi offensivi dell’altrui reputazione sullo stato di Whatsapp (Cass.,Sez.V, sent.n. 33219/21)

    Se la persona è presente on line, si integra un’ ingiuria realizzata alla presenza di più persone e non il delitto di diffamazione e quindi va dichiarata l’insussistenza del reato ( Cass., Sez.V, sent.n. 44662/21).

    Rilevanza del “like” (mi piace) su Facebook e istigazione a delinquere(Cass. , Sez.V, sent. n. 55417/17) .

    Quanto ai social, se da un lato si ritiene che la diffamazione su una bacheca integri il delitto di diffamazione aggravata per l’uso del “mezzo di pubblicità” (  Cass., Sez. I, sent.24431/15), dall’altro si è esclusa la sua sussistenza in capo all’amministratore di un gruppo face book per i commenti di terzi da lui non approvati espressamente. Viceversa lo stesso viene ritenuto punibile qualora abbia scientemente omesso di cancellare,anche a posteriori, le frasi diffamatorie segnalate (  Tribunale di Vallo della Lucania, Gip, sent. n.22/16 ).     

    Equiparazione diffamazione a mezzo stampa ed a mezzo Internet

    In tema di diffamazione a mezzo stampa, con particolare riferimento alla pubblicazione di un video su piattaforma Youtube, ai fini del riconoscimento dell’esimente ex art. 51 c.p., qualora il contenuto digitale contenga una critica formulata con le modalità proprie della satira, il giudice, nell’apprezzare il requisito della continenza, deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e paradossale della rappresentazione, rispetto al quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell’espressione, restando, comunque, fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi superati quando la persona pubblica, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al disprezzo. Il diritto di satira, cioè, sussiste anche qualora venga esercitato online, a condizione che non vi sia aggressione personale e gratuita ai danni della persona offesa (Cass., Sez. V, sent. n. 12520/23).

    Il direttore responsabile della testata giornalistica  on line è responsabile ai sensi dell’art. 57 c.p. (Cass.,Sez.V,sent.n. 1275/18; Cass., Sez.V, sent.n.13398/17).

    I quotidiani e le testate on line hanno natura del tutto assimilabile a quella dell’informazione su carta stampata;non vi è dubbio,quindi,che per essi si applichino le regole normative e giurisprudenziali relative alla diffamazione a mezzo stampa e alle relative circostanze scriminanti (Cass.,S.U.,sent.n.31022/15).

    Il direttore del quotidiano on line  non è responsabile ex art. 57 e 57-bis c.p. per omesso controllo (Cass., Sez. V, sent. n. 10594/13; Cass., Sez. V, sent. n. 44126/11; Cass., Sez. V, sent. n. 35511/10).

    Responsabilità gestore del blog

    Responsabile di diffamazione aggravata il blogger che venuto a conoscenza di un contenuto offensivo pubblicato da un utente non lo rimuove immediatamente (Cass., Sez.V, sent. n. 45680/22).

    E’configurabile un concorso omissivo nel reato commissivo dell’autore della pubblicazione quando il blogger, avvedutosi dell’illeceità  del contenuto postato da terzi sulle proprie pagine, non lo rimuova, così perpetuando la pubblicazione tramite la permanenza on line (Cass.,Sez.V,sent.n.12546/18).

    Tendenzialmente unanime, tranne casi isolati (Trib. Varese, GUP, 22 febbraio 2013; Trib. Aosta, 26 maggio 2006), l’idea che il gestore del blog non possa essere considerato responsabile della diffamazione per scritti altrui, non essendo equiparabile al direttore di una testata giornalistica e non avendo obblighi giuridici di impedire l’evento  (Cass.,Sez.V, sent.n.44126/11;  Cass.,Sez.V, sent.n.35511/10).

    Il luogo del commesso reato      

    Il Giudice penale competente a conoscere della diffamazione consumata tramite mail è quello del luogo ove la riceve il destinatario (Cass.,Sez.V, sent.n. 38144/23)

    Quando più persone appartenenti allo stesso gruppo Facebook offendono la reputazione della medesima persona offesa la competenza territoriale spetta al giudice del luogo ove è stata iscritta per prima la notizia di reato (Cass., Sez.V, sent.n. 7377/23).

    Il delitto di diffamazione via Internet  è   un reato di evento che si consuma quando i terzi percepiscono l’espressione ingiuriosa (Cass., Sez. V, sent.234528/06).

    Quando non sia possibile individuare il luogo di consumazione del reato e sia invece possibile individuare il luogo in remoto in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato, tale criterio di collegamento,  in quanto prioritario rispetto a quello di cui all’art.9 c.p.p. comma 2 (che attribuisce la competenza al giudice della residenza, dimora o domicilio dell’imputato), deve prevalere su quest’ultimo, cosicché la competenza risulta individuabile con riferimento al luogo fisico ove viene effettuato l’accesso alla rete per il caricamento dei dati sul server (Cass., Sez.V ,sent. n.31677/15; Cass., Sez. I, sent.n.8513/09).

    Accertamento del reato

    La tesi del furto di identità per difendersi dall’accusa di diffamazione a mezzo Facebook presuppone la prova della denuncia dell’illecito subito ( Cass., Sez. V, sent.n. 40309/22).

    La diffamazione può essere provata anche con gli screenshot che riportano le frasi offensive della reputazione scambiate su Facebook( Cass. , Sez. V, sent.n. 24600/22).

    La diffamazione commessa in rete può essere provata anche in mera via logica,  partendo da una semplice “stampata”del contenuto offensivo, senza il ricorso a tecniche di indagini informatiche (Cass.,Sez.V, sent.34406/15).

    Interessante, ma isolata,  la decisione secondo cui la diffamazione via Internet non può essere presunta, in quanto a differenza della televisione e della radio, il messaggio inserito non è detto che venga letto. Pertanto in assenza di prova di percezione da parte di terzi si risponderebbe di tentata diffamazione (Tribunale di Teramo, sent. n.112/02).

    Paolo Galdieri
    Avvocato penalista e cassazionista, noto anche come docente di Diritto Penale dell'Informatica, ha rivestito ruoli chiave nell'ambito accademico, tra cui il coordinamento didattico di un Master di II Livello presso La Sapienza di Roma e incarichi di insegnamento in varie università italiane. E' autore di oltre cento pubblicazioni sul diritto penale informatico e ha partecipato a importanti conferenze internazionali come rappresentante sul tema della cyber-criminalità. Inoltre, ha collaborato con enti e trasmissioni televisive, apportando il suo esperto contributo sulla criminalità informatica.
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