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Dai “mi piace” alla depressione: come i social media possono influire sulla nostra salute mentale

Daniela Farina : 8 Aprile 2023 08:23

Interrogarsi sui cambiamenti nel momento stesso in cui avvengono è sempre un’impresa difficile, se non addirittura temeraria. Certo è che quando l’oggetto dell’indagine riguarda proprio i cambiamenti prodotti dai social sugli individui tale sensazione si fa davvero forte.

E’ sotto gli occhi di tutti come le nuove tecnologie della comunicazione stiano modificando radicalmente il nostro modo di relazionarci con gli altri, i nostri costumi, i nostri comportamenti pubblici e privati. Una vera mutazione antropologica delle masse e degli individui. Una metamorfosi che passa attraverso la ridefinizione del modo con cui cerchiamo le informazioni che ci servono, della maniera con cui comunichiamo e soprattutto del modo in cui ci relazioniamo con il nostro prossimo.

L’utilizzo costante e continuo di fotografie, commenti, indicazioni di gusto o di orientamento sembra cancellare il nostro io e molte persone mostrano segni sempre più seri ed invalidanti di dipendenza, con sintomi di Tolleranza, Astinenza e Craving.

Vediamo insieme cosa sono e poi cosa si intende per “Friendship Addiction”

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La Tolleranza è la necessità di stare collegati e/o aggiornare sempre di più i contenuti personali della propria pagina.

L’Astinenza, è la sperimentazione di intensi disagi psico-fisici nel caso non ci si colleghi per un certo periodo tempo.

Il Craving, è la presenza sempre maggiore di pensieri fissi e di forti impulsi verso come e quando connettersi.

La Friendship Addiction è una sorta di dipendenza da connessione, aggiornamento e controllo della propria pagina web e soprattutto ricerca di amicizia e di contatti.

Perchè ciò accade?

Il motore principale è la paura sempre più diffusa e crescente di perdere il senso della presenza rispetto alle cose che accadono e di scomparire o essere irrilevanti all’interno del flusso della comunicazione. Quando siamo collegati, possiamo controllare, in modo quasi assoluto, il nostro comunicare, nonché vederci per quello che vorremmo essere.

Come Narciso, siamo vittime della nostra debolezza, e quindi rimaniamo continuamente in ostaggio della nostra immagine riflessa nello schermo. Nell’illusoria convinzione di poter controllare le nostre azioni dipendiamo, invece, sempre più dal giudizio altrui. Non agiamo ma siamo agiti!

Un aspetto non marginale di questo processo è costituito poi da alcune sindromi e patologie.

Fomo è l’acronimo di fear of missing out ed è la sindrome che si realizza quando si assiste,passivamente e con dolore, a episodi di vita reale percepiti, attraverso la mediazione dei social.

Alone togheter, è la sensazione di forte solitudine che prende se non si è continuamente in contatto con qualcuno, attraverso la rete. Potremmo definirla anche “depressione da like”. Anzi, meglio, da mancanza di like, di post, notifiche, messaggi, richiami, tweet e re-tweet. Tutti quegli “avvisi” che anche nella giornata più grigia, ci danno la sensazione di essere in comunicazione, oltre il nostro spazio fisico e di avere, perché no, una montagna di amici.

Paolo Ferri, docente di Teoria e Tecnica dei nuovi media all’Università Bicocca spiega che i giovani ormai hanno capito l’inganno: “Sanno che molti di quei contatti sono pura illusione, e preferiscono il gruppo WhatsApp dei loro coetanei in carne ed ossa. Invece gli adulti che si definiscono perfettamente integrati ed impongono ai propri figli il coprifuoco sui social, restano sempre più connessi con il loro smartphone”

Cosa si nasconde dietro questo bisogno ?

La dopamina è un neurotrasmettitore coinvolto nei fenomeni di dipendenza. Un “mi piace” sotto la foto postata pochi secondi prima comporta, una scarica nell’organismo che crea un effetto ipnotico e fa restare incollati allo schermo del proprio dispositivo.

Cosa accade a livello celebrale e fisico?

A livello celebrale vengono rilasciate maggiori quantità di sostanze psico-attivanti e a livello mentale si creano meccanismi e schemi compensatori che portano al riutilizzo continuo e sempre maggiore. Quando per scelta l’individuo non è connesso o quando la connessione non è possibile, si presentano allora seri sintomi psicologici come ansia, depressione, attacchi di panico, paura, problemi di sonno, insicurezza, suscettibilità. Anche a livello fisico possono subentrare molteplici problemi, come ad esempio emicrania, stress oculare, iper sudorazione, tachicardia, tensioni, crampi e/o dolori muscolari, forte stanchezza.

I social hanno prodotto nuovi linguaggi e di conseguenza nuovi modi di leggerli e di analizzarli.

Ecco cosa ha scritto lo psicologo Dr. Larry Rosen per Psychology Today: “Mi piace” è un esempio di quello che chiamerei “empatia virtuale”. Siamo tutti ben consapevoli di ciò che significa essere empatici verso qualcuno. Quando si fa clic su “Mi piace”, stai comunicando con un altro essere umano. Cosa stai comunicando? Lo stai riconoscendo in qualche modo. Stai dicendo, “Capisco. Capisco. Io sono qui.”

È facilmente comprensibile che riconoscimenti positivi ai propri post possano procurare piacere, ma quando il bisogno di accettazione si riduce alla ricerca spasmodica di like, si rischia di affidare il valore di sé alla rete.

Conclusioni

Sembra illogico che una serie di applicazioni possa determinare la nostra vita. E non solo. Usando ciascuna di queste costruiamo una vita ed una personalità a volte lontana dalla realtà. Realtà virtuale e vita reale sono intrecciate e sempre più confuse.

Il lato oscuro dei social ha a che fare con la nostra percezione della perfezione. Essere felici non è qualcosa a cui aspirare, ma un requisito. Il grosso problema è che la falsa immagine della felicità supera la verità.

La programmazione è il punto di forza ideale di ogni società digitale, ma se non impariamo a programmare, rischiamo di esser programmati da qualcun altro. Non è troppo difficile nè troppo tardi per apprendere il codice che si nasconde dietro le cose comuni, o quanto meno capire che esistono i codici tra le interfacce di siti e programmi. In caso contrario restiamo alla mercè dei programmatori, di chi li paga e perfino della tecnologia in quanto tale”. Douglas Rushkoff

Non è che ci stiamo lasciando divorare da quella competizione, dove ognuno deve dimostrare di avere una vita migliore dell’altro? E dove la virtualità supera la realtà ?

Daniela Farina
Laureata in Filosofia e Psicologia, counselor professionista, appassionata di work life balance e di mindfulness, Risk Management Specialista in FiberCop S.p.a.