Olivia Terragni : 17 Luglio 2023 11:34
Il Cyber Jihād – Autore: LA HIRE
Durante la Primavera araba i social network hanno contribuito ad alimentare i tumulti popolari dell’area nordafricana e mediorientale, infondendo la convinzione che potessero favorire la diffusione di un pensiero democratico e un anelito di libertà dalla ultradecennale morsa dittatoriale. Se è innegabile che i social abbiano concorso a sostenere la protesta e il malcontento di popolazioni esasperate, è altrettanto vero che nel corso di pochi anni questi strumenti di comunicazione si sono trasformati in mezzi di persuasione e condizionamento delle masse producendo conseguenze inimmaginabili. L’aumento esponenziale dell’attività di propaganda jihadista all’indomani dei richiamati accadimenti continua a essere oggetto di studi e discussioni in ambienti accademici e operativi; invero nell’attuale scenario mondiale la rete (in generale) e i social media (in particolare) giocano un ruolo chiave nel diffondere messaggi di odio e alimentare derive estremiste di ogni tipo, soprattutto verso potenziali bersagli già inclini a raccogliere tali segnali, con il rischio – ormai purtroppo accertato – che tale propaganda possa favorire processi di radicalizzazione e/o il passaggio all’azione di soggetti già radicalizzati.
Il presente articolo si pone la finalità di ricostruire la genesi e l’evoluzione del fenomeno, analizzandone le conseguenti problematiche generate.
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Negli ultimi venticinque anni hanno assunto grande rilievo alcune “piazze virtuali”, ossia spazi web in cui è possibile incontrare vecchi e nuovi amici, condividere aspetti della propria vita, giocare e chattare: questi luoghi astratti sono inevitabilmente diventati, nel tempo, anche realtà dove confrontarsi, scambiarsi opinioni e organizzare eventi.
Facebook e Twitter producono ogni giorno milioni di dati che, se opportunamente monitorati, possono segnalare tempestivamente il montare di una protesta sociale, il gradimento di una moda, la formazione di una tendenza culturale, i comportamenti di borsa di un gruppo di piccoli risparmiatori e così via (vd. nota 1). Naturalmente, non solo i comuni utenti del web sono a conoscenza dell’importanza della rete stessa, ma anche coloro che usano questo strumento, seppur nato con altre finalità, per perseguire altri scopi, soprattutto – per quanto qui di interesse – relativi al terrorismo o all’eversione.
Il pioniere del Cyber Jihād è universalmente riconosciuto in Anwar al-Awlaqi: originario del New Mexico (USA), è diventato famoso nel 2001 mentre ricopriva il ruolo di imam della moschea Dar al-Hijrah di Falls Churh (Virginia, USA), frequentata anche da tre dei futuri attentatori dell’11 settembre; dopo aver raggiunto il Regno Unito, nel 2002 ha iniziato a tenere lezioni e sermoni marcatamente radicali e anti-occidentali per trasferirsi nel 2004 nello Yemen entrando a far parte della galassia qaedista dove, attraverso trasmissioni video in diretta a moschee e università occidentali, un canale YouTube, riviste e altri media, divenne il principale reclutatore di lingua inglese per il jihad violento (vd. nota 2).
“Siamo nel corso di una guerra mediatica per contenderci i cuori e le menti della nostra Umma”, scriveva non a caso al-Zawahiri in un messaggio indirizzato ad al-Zarqawi il 9 luglio del 2005 (vd. nota 3): questa affermazione – veicolata dalle attività del pioniere al-Awlaqi – potrebbe essere considerata la scintilla ideale che ha trasformato la Rete in un efficace bacino di coltura ideologica, dove meglio condurre le proprie attività, mettere in circolazione le proprie idee, progettare attentati, diversificare le attività di reclutamento. La svolta verso le nuove tecnologie, dunque, è stata una valida manovra strategica.
Fino agli anni Novanta del secolo scorso, infatti, i predicatori jihadisti hanno fatto uso di audiocassette per trasmettere il loro messaggio, molto spesso in forma clandestina per evitare che il contenuto sovversivo potesse attirare l’attenzione degli apparati di Polizia e di intelligence. Prima dell’avvento del web, quindi, le cassette circolavano nel mondo sotterraneo della produzione e distribuzione “individuale” (vd. nota 4) .
Nell’ultimo decennio del secolo scorso, ma soprattutto nei primi anni Duemila, gli shuyukh più popolari sono passati alle televisioni satellitari e ai siti internet per diffondere la loro parola; non essendo, al tempo, mezzi di comunicazione particolarmente controllati dalle autorità, avevano il beneficio di raggiungere un target di audience più ampio e negli anni successivi si è registrato un esponenziale aumento dell’attività cyber jihadista, rafforzata dalla presenza di decine di fondazioni mediatiche e piccole realtà virtuali fai-da-te.
Già nel 2009 Facebook ha attirato formazioni terroristiche che, capendone le potenzialità, hanno lanciato l’Emirato Islamico on-line (vd. nota 5). Con l’avvento di questi primi social network le formazioni di quello che oggi definiamo cyber jihad hanno saputo adeguarsi, imparando a utilizzare e sfruttare questi mezzi. A differenza del classico forum, invero, un social network ha subito rappresentato un ambiente più vivo e istantaneo per condividere le idee, il materiale, i contatti e anche le informazioni; si è subito dimostrato uno spazio dove l’interazione con i “fratelli” avviene in tempo reale. Inoltre, la catena di trasmissione è più rapida ed è sembrato essere questo il principale polo attrattivo della nuova generazione. Su YouTube, per esempio, iniziarono a proliferare centinaia di utenti pronti a inserire tutti quei video che fino a poco tempo prima potevano essere visionati soltanto passando per un forum.
Questo nuovo fenomeno prese il nome di Jihād al-Kalam (Jihād della Parola), una delle tre forme di lotta previste dall’allora rinnovato corpus dottrinale islamico, che consiste nella divulgazione delle idee attraverso il proselitismo, i sermoni e i messaggi virtuali: un tipo di jihad che non richiede alcuna arma se non quella ideologica e mediatica.
Recita un hadith del Profeta: “il migliore Jihād è dire una parola di verità al cospetto di un tiranno” e su questo preciso aforisma fu incentrata la strategia mediatica nella fase rivoluzionaria araba per strumentalizzare e giocare a proprio vantaggio la “lotta del popolo contro la menzogna del regime tirannico”. L’obiettivo era dimostrare che i desideri dei giovani rivoluzionari scesi in piazza per rovesciare il regime altro non erano che la traduzione pratica della rivolta contro il tiranno; concetto che la Fratellanza Musulmana, e in seguito altre formazioni jihadiste, hanno assunto come pilastro della loro strategia. Questa tendenza si è tradotta, negli anni, nella proliferazione di realtà mediatiche che all’unisono propagano il verbo della “guerra santa”.
Il primo agosto 2011 Abu Hafs al-Sunni al-Sunni, un membro dell’ormai chiuso forum Atahadi, pubblicò un articolo dal titolo “la teoria strategica della seconda generazione di jihadisti: principi e metodologie”, elaborato che – a dispetto del titolo – affrontava maggiormente il problema delle pubbliche relazioni e si snodava su quattro punti:
La vera rivoluzione della citata teoria strategica era rappresentata dai suggerimenti di “dimostrarsi più etici rispetto ai nemici” e di “dimostrarsi moderati per non essere accusati di incitare al terrorismo”. Sebbene tali concetti siano restati lettera morta, è proprio nella descritta concettualizzazione di al-Sunni che si inserisce l’utilizzo dei social media come strumento imprescindibile per “conquistare i cuori e le menti” delle nuove generazioni musulmane e, quindi, educarle al valore del Jihād. Grazie a tale concettualizzazione si sono gettate le basi del progetto di costruzione dell’attuale Cyber Jihād: nell’era della globalizzazione e della comunicazione integrale e digitale la società “fisica” viene “virtualmente” inondata da filmati di frammenti di storie di musulmani a lungo mortificati da Paesi infedeli impegnati solo a preservare l’egemonia economica su quei territori; ovviamente – in barba ad al-Sunni – abbondano anche contenuti cruenti uniti a proclami in cui si indica il jihad globale quale ultima speranza per riunire una frammentata umma sotto un’unica bandiera.
Questa nuova frontiera della comunicazione consiste nell’utilizzo delle tecnologie per condurre attività persuasive in Rete, azioni che rientrano nel settore della captologia (vd. nota 7).
Grazie a questa metodologia di presentazione di palinsesti audio-video divengono accettabili e perfino coinvolgenti i filmati in cui s’inneggia a una lotta senza tregua contro coloro che tentano di ostacolare il progetto proposto (vd. nota 8).
Ecco quindi che i social network, che tanto avevano contribuito allo sviluppo e alla diffusione di quella euforia mediatica che avrebbe condotto alle Primavere arabe, si sono evoluti in social media, si sono trasformati in uno strumento di proselitismo digitale, studiato e utilizzato dal cosmo jihadista.
Tutto questo rappresenta un paradosso, il grande equivoco dell’era di internet, ossia pensare che la libera circolazione delle informazioni potesse rappresentare per l’individuo il semplice accrescimento della propria emancipazione e che i social fossero un mezzo straordinario per diffondere una “cultura omogenea” in Paesi culturalmente diversi. Invece si è verificato il contrario: grazie a Facebook, WhatsApp, Twitter, Telegram e YouTube sono stati i jihadisti a portare nelle nostre case lo spettacolo della violenza e i messaggi di rivolta in grado di suscitare, soprattutto negli individui più fragili, sentimenti di empatia e di sostegno (vd. nota 9). (Autore: LA HIRE)
Continua a leggere la seconda parte: Il Cyber Jihād: i social network come mezzo di propaganda, genesi ed evoluzione | Parte 2
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