Massimiliano Brolli : 20 Giugno 2020 08:00
Articolo di: Massimiliano Brolli
Data pubblicazione: 20/06/2020
Il concetto è semplice; l’espressione “inganno militare” si riferisce alla possibilità di ingannare i nemici durante una guerra. Ciò si ottiene normalmente alterando i fenomeni di contorno come le informazioni, la comunicazione e la percezione psicologica ad uso di un più ampio scopo strategico.
Kevin Mitnick (nome in codice “condor” e famoso hacker americano ispiratore di tantissimi film sull’hacking, oltre ad essere stato l’inventore dello “spoofing ip”), nel suo libro The Art of Deception riportava:
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«La mente umana è un’invenzione meravigliosa. È interessante notare quanto riesca a essere creativa la gente quando si tratta di inventare modi subdoli per ottenere quanto le pare o per togliersi da una situazione spinosa. Dovete usare la medesima creatività e immaginazione per proteggere i sistemi informatici e di informazione nei settori pubblici e privati. Perciò, gente, quando pensate alle politiche di sicurezza delle vostre aziende … siate creativi e pensate fuori dal sentiero tracciato.»
La cyberwar è del tutto simile alle guerre reali, ne abbiamo già parlato nell’articolo Stati e Guerre senza confini geografici pubblicato su Safety & Security Magazine, ma ad oggi come possiamo sfruttare “l’arte dell’inganno” nella cybersecurity per aumentare la sicurezza delle infrastrutture informatiche, proprio come incitava Kevin Mitnick?
Come sappiamo, il concetto di honeypot è presente da tempo, ma si tratta di un ecosistema bersaglio auto-consistente che funge da “trappola” per eventuali intrusioni informatiche.
Lo step successivo è quello di creare delle – trappole in-line – alle applicazioni, che risultino esposte come parte integrante dell’applicazione stessa, in maniera customizzabile e gestibile, che portino l’attaccante in una bolla creata ad arte per simulare vulnerabilità finalizzate a depistarlo dal bersaglio reale, anche esponendo dati simili a quelli dall’applicazione da proteggere.
Ad esempio, un utilizzo della cyber-deception sulle web-application, può essere implementata simulando la presenza di url (esposte sullo stesso dominio che si vuole proteggere, magari come pagine di backup o altro), affette da note vulnerabilità come ad es. sql-injection, XSS o Remote Code Execution che consentono di ingannare i potenziali aggressori e condurli su percorsi di attacco creati per loro, monitorandone i loro avanzamenti attraverso il Security Operation Center pronto ad agire una volta raccolte tutte le tracce essenziali per poter impugnare una analisi forense.
Tali applicazioni “parallele”, di fatto non saranno altro che delle honeypot “multi layer” esposte in “bolle” completamente separate dalle reti aziendali (ad es. utilizzando hypervisor, cloud pubblico o virtualizzatori vari) che conterranno vulnerabilità note in modalità “inline” alle applicazioni da proteggere, magari riutilizzando e customizzando applicazioni già presenti negli hub-container pubblici per la creazione di sandbox.
Ovviamente la customizzazione risulterà fondamentale in particolar modo per rendere le pagine simili al portale da proteggere, e quindi non far accorgere i potenziali aggressori di essere atterrati su un qualcosa di noto, magari da loro utilizzato per precedenti esercitazioni di attacco.
Per portali critici, potrebbero essere interessante inserire all’interno della trappola un intero database “fake” cifrato che riporti informazioni di pubblico dominio prelevate da fonti internazionali.
A questo punto il criminale informatico, qualora sia riuscito a completare l’attacco sul sito “fake” potrebbe:
Nel secondo caso, occorre prestare attenzione in quanto potrebbero esserci implicazioni sul brand e nella web reputation dell’impresa, l‘inganno non deve influenzare gli scenari del mondo reale.
In un contesto così labile tra difensore e attaccante, che pubblica in rete informazioni “fake” provenienti da un nostro sito, rispetto all’opinione pubblica, come occorre comportarci?
Sicuramente l’aspetto più importante sta nel rendere inviolabile “il miele” contenuto all’interno delle applicazioni da proteggere, e su questo fronte, tutte le tecniche di guerra risultano lecite.
Applicando tutto questo, occorrerà attraverso la comunicazione (che vedevamo all’inizio essere uno tra i principali attori nell’arte dell’inganno), proteggere il brand da eventuali attacchi sulle fonti pubbliche. Questo forse oggi in molte aziende potrebbe essere ancora difficile da sostenere per una mancanza di specifiche competenze o reattività nell”attraversamento dei processi aziendali di Cyber Security.
L’arte della deception, è stata avviata nel lontano 1999 con le honeypot che hanno trainato il mercato di quel periodo. Dopo molto entusiasmo si è avuto negli anni successivi un forte arresto, tanto che si parlò di “inganno dell’inganno” che si concluse nel 2014 quando tali concetti cominciano a riprendere forma, anche se in modo differente.
Probabilmente questa sarà una nuova branca di sviluppo nella cybersecurity nel prossimo futuro. Gartner ad inizio dl 2019 parla di “Cyber Deception Technology” (o CDT) e stima che nel 2019 solamente il 10% delle aziende introdurrà strumenti o poc (e soprattutto saranno organizzati per gestire una corretta comunicazione) su questo nuovo fronte. Un problema risulta anche una carenza di listino di questo genere di strumenti che risultano oggi limitati se non completamente assenti.
Nelle guerre, come sappiamo, non esistono limiti nella sperimentazione tecnologica, ce lo insegna Mitnick, ma anche gli eventi, gli zeroday e i data-breach stessi. Il tempo ci farà comprendere se questa nuova visione dell’inganno consentirà di fornire supporto alle grandi aziende, oppure si tratti, come in molti casi, di architetture inutili acquistate e poi non più utilizzate, collezionate in rack spenti nei datacenter.
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