Ilaria Montoro : 30 Agosto 2021 08:18
Autori: Olivia Terragni, Ilaria Montoro, Massimiliano Brolli, Emanuele De Lucia, Roberto Villani, Thomas Saintclaire.
Data Pubblicazione: 30/08/2021
Sharbat Gula nel 1984, in un campo profughi di Peshawar immortalata dal fotografo Steve McCurry
I talebani hanno conquistato Kabul. La resistenza cessa e la storia continua a rimanere inascoltata. Ma quel che è peggio, sembra si tratti a tutti gli effetti di una scossa sismica al contesto geopolitico globale.
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“…i talebani hanno affermato che la guerra è finita e che negozieranno un governo islamico aperto e inclusivo, oltre a intraprendere azioni responsabili per garantire la sicurezza di cittadini afghani e missioni straniere”,
ha detto Hua Chunying, portavoce del ministero degli Esteri. Vogliono riportare l’ordine e non ci sono liste punitive verso gli afghani. Così dice il portavoce Zabihullah Mujahid, “gli Americani smettano di invitarli all’aeroporto”.
Con questo articolo cercheremo di fare un quadro completo della situazione Afghana, partendo dal quadro geopolitico e dai fatti attuali, per poi addentrarci nelle alleanze strategiche, il panorama delle minacce cyber (senza tralasciare il terrorismo), per arrivare allo sfruttamento del sottosuolo e tentare di delineare delle conclusioni.
L’alleanza tra la Cina e i Talebani – alias una morsa tra Pechino e Islam – è una delicata situazione che vede in gioco il dominio dell’Asia centrale.
I talebani dicono di voler riportare l’ordine, ma intanto l’aeroporto di Kabul è preso d’assalto. E quel che è un paradosso per l’Occidente sono le dichiarazioni della Cina: la guerra è finita. Anche i talebani dicono che la guerra è finita, una guerra da loro considerata legittima – nell’incapacità anche di negoziare con gli afghani – in base al principio dell’autodifesa, ma che dura da 20 anni. Eppure da Kabul ogni 39 minuti un aereo decolla e la musica da questo momento in poi sarà proibita, le donne staranno a casa in attesa di un adeguato protocollo.
Poi l’esplosione nel tardo pomeriggio del 26 agosto ora locale. Attentato ampiamente previsto da molti analisti con un duplice scopo: mettere fretta alla forze occidentali che fuggono dal neonato emirato e perchè non vogliono che siano portati via donne, bambini (medici, avvocati, professionisti) con i quali costruire uno stato. Seguono colpi d’arma da fuoco. Tra le vittime anche i bambini. Non dimentichiamolo.
“Non portateci via medici, avvocati e professionisti: lasciateli lavorare qui come esperti. Inoltre vorrei sottolineare che al momento chi va in aeroporto rischia la vita a causa della calca, gli americani poi sparano e la gente muore”.
ha detto il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid
L’avanzata veloce dei talebani è sospetta.
Da una parte i talebani sembrano essere stati appoggiati dall’alleato pakistano, dall’arte della guerra – che insegna la storia appunto che l’Occidente oggi rinnega – e addestrati dalle grandi potenze.
Intanto sul China Daily si parla solo del ritiro precipitoso delle truppe statunitensi, britanniche e altre truppe NATO dall’Afghanistan, dopo i loro quasi 20 anni di fallita “guerra al terrore” e dopo almeno 71mila civili uccisi, i Talebani controllano nuovamente il Paese.
Se ne sono andati anche i militari italiani – il ritiro del “vassallo americano” è stato annunciato già il 30 giugno 2021 dal Ministro della Difesa, confermato il 27 agosto 2021 con la partenza dell’ultimo volo di un C130 dell’aviazione militare italiana. Biden aveva annunciato il ritiro delle sue truppe per l’11 Settembre 2021. Si tratta della sconfitta della NATO. Eppure gli americani credevano che sarebbero riusciti facilmente dove i sovietici avevano fallito ai loro tempi.
Questo dovrebbe insegnare che la potenza tecnologica non porta sempre alla vittoria militare.
Ed ecco la situazione in breve: l’Europa si è indebolita con il suo allargamento, e oggi è molto meno solida e più disunita di quanto non sia mai stata. Con il Trattato di Maastricht, siamo diventati una “Unione” di popoli con tradizioni diverse, ma non davvero uniti, il resto lo ha fatto una liberalizzazione globalizzata. La politica degli USA in Afghanistan ha fallito, e a questo punto potrebbe chiamare in gioco la Russia in un blocco russo-nipponico-indiano. Cosa faranno Iran, sauditi e Qatar è ancora da vedere. La Cina. che da tempo si fa strada, è sempre più minacciosa. In poche parole:
L’Occidente è stato battuto.
É stato battuto per l’enorme evento geopolitico avvenuto a Kabul. Il tutto è avvenuto senza combattere. Tutto ciò è davvero senza precedenti, mentre gli alleati se ne stanno rannicchiati all’aeroporto con il timore che le bombe possano sospenderli.
L’America sembra non servire più, piegata dalla pandemia e accecata dal terrorismo non ha saputo vedere le nuove dinamiche in gioco, ma ora? Il governo afghano installato dall’Occidente crolla, i Talebani, parlano di inclusione politica afghana e guardano all’Iran, alla Russia, alla Cina e al Pakistan per una mediazione e per facilitare il loro posto nel “Grande Gioco”.
Non sembrano nemmeno più xenofobi né tribali, promettono un’educazione alle donne, dicono di essere cambiati. E qui nemmeno la CIA può più intervenire davanti ad una Cina che sembra determinata a plasmare questa “nuova regione” più di quanto possiamo pensare.
Si, anche il China Daily afferma:
“la situazione attuale potrebbe diventare un punto di svolta verso una nuova era nella politica mondiale” e continua: “i media occidentali proseguono con le loro notizie piene di panico, mentre le teste più fredde tra cui Cina, Russia, Pakistan, India e paesi dell’Asia Centrale sono impegnate nelle mosse diplomatiche”.
Ma anche la Cina d’altronde deve fare i conti con un “Afghanistan irritabile” lungo il suo confine occidentale, guidato da un gruppo estremista islamista che ha preso di mira i civili negli attacchi e ha fornito rifugio ad al-Qaeda. E che dire del Pakistan? La sicurezza rimane sempre la questione centrale per ogni stato. In questo la Cina sicuramente non vuole diventare un nemico dell’Islam o perdere un potenziale percorso verso l’Iran e la Turchia che eviti l’Oceano Pacifico….e aggirare i paesi dell’Asia centrale in cui la Russia mantiene l’influenza.
Ma “la diplomatie n’est pas un dîner de gala”, ce lo ha insegnato Claude Martin, sottolineando con queste parole la violenza della Rivoluzione. Martin sapeva bene che la Cina è la seconda economia più grande del mondo, e anche se il suo regime non sta evolvendo nella giusta direzione, dobbiamo tuttavia rispettarne la sovranità. Lo chiede Pechino, ovvero di non cercare di imporgli con la forza il nostro sistema politico e, soprattutto, non commettere l’errore di cercare di “contenere”, “punire”, “costringere” la Cina a cambiare politica, con l’illusione di poterla così avvicinare ai “valori” occidentali.
Forse per questo il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Yi ha affermato che: “l’Afghanistan appartiene al popolo afghano”, che “la Cina ha sempre aderito alla non interferenza negli affari interni dell’Afghanistan”. Allo stesso tempo Pechino aiuterà a risolvere i problemi e il ripristino della pace nel paese, ma questo lo hanno detto invece i Talebani, facendo supporre che un dialogo sia già iniziato.
Detto questo Pechino deve ancora riconoscere ufficialmente i talebani come i nuovi leader dell’Afghanistan. Noi, invece, rimaniamo in attesa del G20. Al resto, ci penseranno i droni?
Bisogna certo constatare, come la memoria del mondo diventi sempre più a breve termine e si preferisca praticare lo sport della caccia al colpevole (che ovviamente è sempre un altro) piuttosto che rileggere con serietà e profondità una storia di vent’anni. Così vediamo ad esempio, chi si scaglia contro Joe Biden, dimenticando che fu Donald Trump a firmare l’accordo con i Talebani il 29 febbraio 2020 a Doha.
Ed è di fronte a questo mare di dimenticanza che possiamo partire da piccole storie di conoscenza ed esperienza sull’Afghanistan. Ad esempio, negli appunti rilasciati da Paolo Alli, nonresident Senior fellow dell’Atlantic Council, già presidente dell’Assemblea parlamentare Nato. Appunti risalenti al 17 novembre 2013, quando si trovava a Kabul, insieme ad una decina di colleghi dell’Assemblea parlamentare della Nato, davanti al vicepresidente del parlamento afgano. Per riassumere, il concetto appare chiaro:
“Le giovani generazioni non lasceranno morire i nuovi valori che permetteranno all’Afghanistan di relazionarsi con la comunità internazionale”.
E allora la domanda sorge ingenuamente spontanea: era proprio necessaria una guerra in Afghanistan?
Il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid
Alli intendeva che si trattava di una guerra che andava combattuta. Ha portato alla sconfitta del terrorismo tradizionale, fino alla nascita dell’Isis nel 2014. Il processo di ricostruzione ha consentito di creare le condizioni per una reale crescita del Paese: nuove infrastrutture, enorme incremento dell’educazione e della scolarizzazione, rispetto dei diritti fondamentali e del ruolo delle donne, moderni sistemi di comunicazione.
Certamente ne sono stati fatti di errori e molto gravi, che possiamo ripercorrere sulle pagine di tutti i giornali. I Talebani nuovamente al potere si stanno dimostrando moderni nelle forme, apparentemente aperti al dialogo, ma nella sostanza son sempre gli stessi, come ha lucidamente affermato uno dei più profondi conoscitori dell’Afghanistan, il generale Giorgio Battisti. Una sorta di Daesh 2.0.
Ma torniamo a noi. Probabilmente nessuno si sarà fatto illusioni su un futuro dell’Afghanistan pacifico e sereno. E nessuno si meravigli se un esercito di oltre 200 mila uomini, costruito, addestrato, armato a immagine e somiglianza degli eserciti occidentali tende a sfaldarsi, sfiduciato, di fronte alla feroce motivazione dei Talebani. Poi ci sono anche 120 mila poliziotti, dei quali in questi giorni non si parla.
Qualcosa di simile era già successa in Iraq, quando un sedicente Stato Islamico comparso dal nulla, dopo aver occupato Mosul e provincia, aveva fatto scappare a gambe levate il nuovo esercito di Bagdad. Anche questo si mostrava imponente, bene armato e potenzialmente bene addestrato secondo le regole dell’esercito americano.
Ciò che da più all’ortica, oggi, è il coro di lamenti per stigmatizzare come frettoloso un rientro che si prospettava invece sin dall’inizio dei colloqui di Doha, nel settembre 2018, ma che dopo quasi tre anni trova tutti ancora impreparati.
Ciò che appare chiaro è un futuro per l’Afghanistan cino-talebano. Per meglio definire, il contesto è quello di una transizione ecologica, unitamente a quella digitale. Un ruolo che non deve sorprendere, considerato che Pechino, con grande lungimiranza e capacità di guida politica (Deng Xiaoping sosteneva che “se il petrolio è l’oro degli Arabi, la Cina ha le terre rare”), ha saputo, negli anni, costruirsi una posizione di monopolio su gran parte di quelle materie prime che, proprio come accadde in passato con il carbone e il petrolio, rendono oggi possibile l’attuale transizione energetica. Materie impiegate nella costruzione di semiconduttori, nell’industria della difesa per la costruzione di droni, sistemi radar, sonar, laser e di guida, e come componenti dei motori a reazione dei missili. I “cervelli” elettronici necessari per la digitalizzazione.
La Cina, il cui sguardo è sempre rivolto a Ovest, considera quindi il territorio afghano una scorciatoia per la sua invasione commerciale.
Non dimentichiamo il Pakistan che con la Cina ha da tempo un buon rapporto e continua a fare affari. Questo perché anche i pakistani hanno buoni rapporti con i Talebani, sfornati a getto continuo dalle loro 16 mila madrasse illegali. Se Talebani e Pakistani consentissero il passaggio ai traffici cinesi per le cinque nuove grandi vie che raggiungono l’Afghanistan, il tutto diventerebbe molto appetibile. Se poi “affittassero” alla Cina il porto di Gwadar (a soli 150 km dal confine afghano), è evidente che il rapporto tra i tre Paesi farebbe un sostanzioso salto di qualità.
Armi, tecnologia e denaro, affluiranno quindi presumibilmente verso l’Afghanistan, che cederà in cambio diritti di estrazione e corridoi per la BRI.
Lo spettro elettromagnetico (EMS); è d’altronde costituente naturale che contribuisce alla formazione dell’ambiente cibernetico. Non è un caso se anche i nuovi aerei da combattimento degli Stati Uniti come gli F-22, trasportando sistemi e sensori che sfruttano lo spettro elettromagnetico, riescano a condividere i dati in tempo reale con le altre piattaforme site sul teatro bellico. Attraverso lo spettro elettromagnetico dunque, la guerra cibernetica si presta ad azioni a più ampio raggio; è il caso delle forme di guerra elettronica quando si attua una vera e propria “manipolazione dell’EMS”. Tutte queste operazioni anche appartenenti a una categoria diversa rispetto alla guerra cibernetica, se pensate nel contesto di un conflitto militare convenzionale rientrano nella fattispecie di azioni belliche di cyber warfare come dimostra l’Operazione Orchard.
E come in un mondo alla Black Mirror, oggi vediamo social network tra le strategie messe in campo per proteggere i civili. La società di Mark Zuckerberg ha lanciato uno “strumento one-click” per gli utenti che si trovano in Afghanistan affinché possano bloccare i loro account alla visione del mondo esterno. Solo chi ha già accettato l’amicizia sulla piattaforma potrà vedere cosa viene pubblicato o condiviso. A riferirlo, su Twitter, il responsabile delle politiche di sicurezza, Nathaniel Gleicher. Facebook ha anche temporaneamente rimosso la possibilità di visualizzare le liste di amici degli account di cittadini afghani.
Twitter ha invece reso noto di star lavorando con l’Internet Archive per accelerare le richieste volte a cancellare vecchi tweet che potrebbero mettere in difficoltà chi in passato si è schierato contro i talebani. L’obiettivo, in questo caso, è la sospensione momentanea degli account fino a quando i loro possessori non potranno accedere di nuovo e quindi cancellare determinati contenuti compromettenti.
I colossi della Rete, in questo modo, vogliono evitare che gli estremisti islamici, riescano a utilizzare i social network per tracciare il dissenso nei loro confronti e individuare le voci contrarie al nuovo regime. Secondo quanto riportato da Amnesty International, infatti, migliaia di afghani, tra cui accademici, giornalisti e difensori dei diritti umani, rischiano di subire rappresaglie talebane.
WhatsApp ha deciso martedì di bloccare i canali di comunicazione e broadcast utilizzati dal gruppo che appena due giorni prima si è insediato a Kabul. Agendo alla guisa di autorità locali e de facto guardiani dell’ordine pubblico, i talebani utilizzano i gruppi WhatsApp come canali per comunicare con la popolazione, che può adoperarli per denunciare saccheggi, violenze o rapine.
Per tutta risposta, il portavoce talebano Mujahid ha accusato Facebook, paradossalmente, di censura in una conferenza stampa riportata da Euronews.
“Una sola domanda dovrebbe essere posta a coloro che sostengono di essere promotori della libertà di espressione e che non consentono la pubblicazione di tutte le informazioni”
Ma non è uno scandalo: è risaputo che nei regimi totalitari ciò che desidera il popolo non importa a nessuno.
“Siamo stati lì vent’anni, la guerra è persa. Che fare?”.
Abbiamo anche visto di recente, il risvolto della medaglia, quando le rappresaglie cyber relative all’Afghanistan, si sono intensificate e concretizzate con un attacco verso il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti che è stato colpito nelle ultime settimane, mentre gli sforzi dei diplomatici per evacuare americani e rifugiati diventavano sempre più intensi e disperati.
L’entità del danno arrecato dall’attacco è rimasto sconosciuto, ma i funzionari hanno insistito sul fatto che l’incursione (scoperta dal Cyber Command del Dipartimento della Difesa) non ha avuto alcun impatto sulla missione.
È anche vero che l’interesse per questa regione è al centro della politica internazionale, anche relativamente allo sfruttamento del suo sottosuolo (come vedremo più avanti) e non sono nuovi i fenomeni di spionaggio informatico contro il governo afghano.
Ad esempio, luglio del 2021, sono stati rilevate delle incursioni da parte di gruppi hacker cinesi, verso la principale agenzia di sicurezza nazionale dell’Afghanistan, impersonando l’Ufficio del Presidente dell’Afghanistan per infiltrarsi nelle reti e mascherare le loro attività.
Check Point Research (CPR) ritiene che questa sia l’ultima di un’operazione di lunga durata che risale al 2014, dove sono stati presi di mira i paesi della via della seta come Kirghizistan e Uzbekistan.
Possiamo anche dire che le incursioni cinesi in Afghanistan possono essere definite come una “politica estera di frontiera”, da parte della Cina. Si tratta appunto del controllo interno di specifiche attività che avvengono nel territorio cinese, le quali vengono influenzate dall’esterno. Pertanto, cercare di controllare le regioni di confine risulta (soprattutto in questo periodo) un obiettivo primario del Partito comunista cinese.
Pro futuro, potrebbero delinearsi delle alleanze strategiche tra talebani e cinesi, con questi ultimi impegnati a sviluppare le capacità cyber di un popolo (che oggi si afferma essere completamente cambiato), che fece del terrorismo un’arma di distruzione di massa.
Un altro importante tema che si sta definendo attorno alla crisi Afghana, è il controllo e lo sfruttamento delle cosiddette “terre rare”, o in generale lo sfruttamento del suolo afghano, il quale è ricco di sostanze chimiche che fanno gola a molte nazioni.
Da subito la Cina (principale produttrice di queste sostanze) si è dimostrata sensibile a sviluppare buoni rapporti con i Talebani, in totale controtendenza rispetto a quanto accaduto con la minoranza musulmana degli Uiguri, abitanti la regione nord-occidentale dello Xinjiang.
Ma Xi Jinping ha progetti ben più grandi attorno al Belt and Road Initiative (BRI, 带路 o nuova via della Seta), che già coinvolge i paesi confinanti come Pakistan, Tajikistan e l’Uzbekistan.
Non da sottovalutare che la China Metallurgical Group Corp (MCC), nel 2007, ottenne dal governo di Kabul un contratto di 30 anni per lo sfruttamento dei depositi a Mes Aynak per l’estrazione del rame.
L’Afghanistan è una delle nazioni più povere al mondo. Ma nel 2010, funzionari militari e geologi statunitensi hanno rivelato che il paese (che si trova al crocevia dell’Asia centrale e meridionale), si estende su giacimenti minerari del valore di quasi 1 trilione di dollari, tra i quali oro, argento, zinco, mercurio e litio e alluminio e di quelle che vengono chiamate “rare earth”, appunto terre rare.
Infatti, in Afghanistan è presente uno dei più grandi giacimenti di litio al mondo, un componente essenziale, ma molto scarso, nelle batterie ricaricabili e in altre tecnologie vitali per affrontare la prossima “crisi climatica”.
L’Afghanistan risulta quindi una delle regioni più ricche di metalli preziosi tradizionali, ma anche di metalli necessari per l’economia emergente del 21° secolo.
L’Agenzia internazionale per l’energia ha affermato a maggio che le forniture globali di litio, rame, nichel, cobalto ed elementi delle terre rare devono aumentare drasticamente o il mondo fallirà il suo tentativo di affrontare la crisi climatica. Tre paesi – Cina, Repubblica Democratica del Congo e Australia – rappresentano attualmente il 75% della produzione globale di litio, cobalto e terre rare, ma questi giacimenti non bastano.
Probabilmente, se l’Afghanistan avrà un periodo di tranquillità, potrà sviluppare le sue risorse minerarie e diventare uno tra i paesi più ricchi dell’area, entro un decennio. Questo ovviamente è qualcosa da non sottovalutare soprattutto da parte della Cina che detiene ad oggi il completo controllo del mercato.
Mentre gli Stati Uniti lasciano l’Afghanistan, i Paesi ad esso vicini (Cina, Russia, Iran, Pakistan e India) hanno radicalmente cambiato le prospettive dei loro interessi in quell’area rispetto a quanto non fossero poche settimane fa.
A giudicare dal volume e dalla frequenza delle azioni che è stato possibile osservare in ambito cyber nel recente passato contro organizzazioni e realtà strategiche afghane, tuttavia, è possibile affermare che ciascuno dei suddetti Paesi di interessi in questa area ne avesse e che fossero perseguiti da tempo con dedizione.
Nel corso del tempo, infatti, l’Afghanistan ha dovuto confrontarsi e mitigare attacchi riconducibili a diversi gruppi di minaccia, più o meno vicini a Governi interessati sia ad una diretta influenza locale nella regione dell’Asia Centrale che ad una influenza maggiormente di tipo strategico su scala globale. I settori maggiormente impattati da tali campagne di cyber-spionaggio sono stati quello militare, governativo, tecnologico, diplomatico e della ricerca.
All’interno di questa matrice di attacchi ed operazioni cyber, a partire almeno dai primi mesi del 2014, l’Afghanistan ha subito le fortissime turbolenze di una guerra digitale che imperversa tuttora e che vede oltremodo una costante evoluzione dei mezzi e delle tecniche fra le parti. Fra i gruppi di minaccia che i ricercatori hanno identificato impegnati in operazioni contro obiettivi afghani troviamo quelli appartenenti alle matrici Russa (APT28,Turla), Pakistana (Mythic Leopard), Cinese (Axiom Umbrella,IndigoZebra,RedFoxTrot, Emissary Panda), Iraniana (Seedworm) ed Indiana (Sidewinder).
La Russia è stata a lungo ambivalente riguardo alla presenza delle forze USA/NATO in Afghanistan. Da un lato, Mosca ha riconosciuto e apprezzato il ruolo stabilizzatore svolto nel paese negli ultimi 20 anni, frenando i gruppi estremisti e rafforzando le autorità afgane, proteggendo così gli approcci meridionali della Russia. Da un altro punto di vista Mosca ha trovato inquietante la presenza militare degli Stati Uniti, vicina alla sua sfera di influenza in Asia centrale, e temeva che l’America potesse cercare di estendere ulteriormente i propri ambiti di influenza rafforzando la presenza nella regione. Nel corso del tempo gruppi di minaccia ritenuti essere vicini al governo Russo hanno agito soprattutto contro bersagli operanti nel settore militare e diplomatico al fine probabilmente di acquisire informazioni a supporto di una efficace strategia a medio – lungo termine da adottare nell’area.
Gli obiettivi strategici del Pakistan per quanto riguarda la questione Afghana quasi certamente continuano anche ora a voler contrastare l’influenza Indiana nella regione e mitigare le conseguenze dei diversi punti di interesse nella ragione all’interno dei propri confini. Mythic Leopard, attore di minaccia vicino al governo Pakistano, è stato negli ultimi anni intensivamente impegnato nell’acquisizione di informazioni relative ai settori militare e diplomatico, colpendo bersagli come contractor della difesa ed ambasciate soprattutto contro Paesi quali l’Afghanistan, il Kazakhstan, l’Arabia Saudita ed l’India al fine di perseguire tali scopi.
La questione sicurezza in Afghanistan è andata peggiorando esponenzialmente da quando gli Stati Uniti ed i suoi alleati hanno deciso di ritirarsi dalla missione nel Paese. A seguito di interscambi tra il ministro degli Esteri cinese ed i leader talebani, è evidente il rafforzamento dell’influenza della Cina nella regione. La presenza degli Stati Uniti era in gran parte intesa come una minaccia di tipo geopolitico ed ora, eliminata questa, Pechino punterà ad assumere un ruolo politico sempre più attivo anche in considerazione dei suoi notevoli interessi nella regione. Diversi attori di minaccia ritenuti vicini al governo a questo Governo hanno perseguito negli ultimi anni scopi di spionaggio militare e civile non solo contro obiettivi Afghani ma anche contro diversi Paesi asiatici. E’ possibile supporre che tali gruppi continuino ad operare nell’area dell’Asia Centrale in modo molto attivo anche nel prossimo futuro supportando la crescita e l’espansione cinese (sia strategica che politica, economica e militare) anche in considerazione di una potenziale sensazione di insicurezza generale che la Cina ripone nei confronti di un Afghanistan governato dai talebani.
Nel corso degli anni diversi gruppi di minaccia sono stati attribuiti all’Iran come potenziale origine o luogo operativo. Fra di essi uno è stato particolarmente impegnato in attività di intrusione mirate alla raccolta informativa nel Medio Oriente e nei Paesi dell’Asia Centrale: Seedworm. Questo gruppo è attivo almeno dal 2017 ed è stato osservato interessarsi, a scopo di spionaggio, a diversi settori, fra i quali quello governativo, diplomatico, della ricerca, delle telecomunicazioni, della difesa, dell’energia nonché quello politico. Esso, infatti, probabilmente a supporto di specifici interessi di intelligence nell’area, ha anche condotto operazioni che hanno visto come bersagli dispositivi mobile di specifiche personalità utilizzando le elezioni Afghane come pretesto all’installazione di applicazioni malevole.
L’interesse dell’India nella regione è stato notoriamente quello di mitigare gli effetti derivanti dalle forti turbolenze presenti fra i diversi attori nell’Asia Centrale ed al contenimento del Pakistan come potenziale minaccia. Nel panorama cyber a questo paese sono stati attribuiti non meno di due gruppi APT (Advanced Persistent Threat) attivi a supporto dei suoi interessi strategici. Fra questi soprattutto la crew nota con il nome “SideWinder” si è distinta per attacchi ad organizzazioni operanti nell’Asia del Sud e dintorni. Gli obiettivi solitamente sono state unità governative e militari tra cui i ministeri della difesa e degli affari esteri di diversi Paesi nella regione. Per quanto riguardo l’Afghanistan, paese strategico per gli interessi Indiani, al gruppo Sidewinder sono stati attribuite diverse incursioni fra le quali quella al Consiglio di Sicurezza Nazionale dell’Afghanistan e quella contro il palazzo Presidenziale Afghano. Considerando il rischio che dopo le recenti vicende l’Afghanistan possa tornare ad essere il Paese copertura dal quale il Pakistan possa manovrare contro la sua sicurezza, è possibile prevedere una forte accelerazione nella quantità delle operazioni condotte da Sidewinder contro obiettivi strategici nella regione a supporto dell’intelligence e della sicurezza nazionale Indiana.
Solitamente a fronte di un innalzamento delle tensioni a livello geopolitico o al crescere degli interessi politici, economici o militari di qualsivoglia fazione in una particolare area geografica, è sempre possibile osservare una crescita esponenziale delle operazioni cyber volte alla raccolta informativa fra le parti direttamente o indirettamente coinvolte. Allo stato attuale ed in considerazione di fattori come l’instabilità della regione, la concentrazione di interessi specifici di diversi Governi e il fatto che quest’ultimi possono contare su gruppi APT già collaudati da tempo non ci sono motivi per pensare che in questo caso le cose andranno diversamente.
Fin dai tempi antichi i “cattivi” sono stati usati.
Non c’è un governo, un regno, una dittatura che non abbia usato i cattivi per i propri scopi o interessi. La situazione attuale non è da meno di ieri, sono solo cambiate le dinamiche comunicative – sappiamo tutto un attimo prima e subito dopo – e le dinamiche demografiche – siamo più di 7 miliardi di persone sulla terra.
Questa differenze tra ieri ed oggi, non significano che ci siano dissimilità nell’operare dietro le quinte, tra nascondigli e diffidenze, o usare l’arte dell’inganno per arrivare a dama, tutt’altro.
Anche oggi l’inganno per scopi protezionistici o di interesse collettivo è quanto mai utile. Perciò si utilizzano i cattivi, facendoli sembrare tali, per poter agire e gestire le situazioni incontrollabili. Circostanze che come una tela devono intrecciarsi tra loro, garantendo una resistenza ed una solida base, per poter costruire il futuro.
Oggi l’attenzione è tutta rivolta all’area geografica asiatica, in quel paese che molti definiscono “meraviglioso” qual è l’Afghanistan. Ebbene quell’area, almeno dai tempi della colonizzazione britannica dell’India, era già sede di molti intrecci di quella tela sopra menzionata. Da quelle montagne transitano molte vie di comunicazione verso l’estremo oriente, il medio oriente, il golfo persico, e l’area australe della terra. Un punto strategico che in caso di conflitto, diviene importante possedere.
La figura del cattivo oggi è il talebano, quella specie di essere poco umano – abbiamo visto tutti come trattano donne e bambini, quindi evitiamo per favore il biasimo se non vengono qui definiti ’persone’ – il talebano oggi è arrivato al potere, dopo che gli esportatori della democrazia, sono andati via.
Non discutiamo se troppo in fretta o meno, poco interessa, ma certamente la mossa non è fine a se stessa. Diciamo che una nuova forma di gestione dell’area, per usare un termine tecnico agli amanti del cybermondo, potremmo definirla una versione 4.0, si sta materializzando. Usare i talebani nuovamente – fu fatto già in passato quando l’area era occupata dall’ex URSS – per muovere guerra verso qualcuno. Fare pressione su un determinato target, al fine di garantire la supremazia su settori chiave del futuro di questo nuovo millennio, è fondamentale.
La storia ci ha insegnato che le guerre sono state fatte per mantenere un’egemonia territoriale, pensate che anche gli antichi romani, quando hanno visto l’espansione commerciale dei Cartaginesi, hanno pensato bene di difendere il territorio. Certo oggi non c’è più olio e vino da commerciare, ma forse ci sono altri elementi utili per il futuro tecnologico, ragion per cui avere il dominio strategico su questi elementi, è quanto mai fondamentale.
Gli aspetti legati alla sicurezza sociale, sono molto flessibili, i timori di infiltrazioni da parte di soggetti intenzionati a realizzare attentati non sono affatto esagerati, ma ci sono dettagli che fanno la differenza, tra il rischio che abbiamo corso con il terrorismo che ha investito l’Europa pre-pandemia, ed il momento attuale.
Alcuni paesi che fino a ieri si fronteggiavano, oggi hanno stretto collaborazioni strategiche, che chiaramente non pubblicizzano perché potrebbe essere controproducente. Molti legami industriali che abbracciano Europa, Giappone e Corea del Sud, sono anche ottimi modelli di copertura per altri scopi prettamente militari e di conquista. Le zone marittime intorno l’area, vedono il traffico di superficie non meno più denso di quello che è sotto la superficie, dove si incrociano unità sommergibili di paesi sempre molto attenti alla sicurezza – Italia compresa – che compiono attività di protezione per le unità commerciali di superficie, nonché il controllo sottomarino e di cyber-intelligence.
Il terrorismo pre pandemico, aveva una precisa intenzione. Porre all’attenzione del pianeta le idee di una parte del mondo islamico, che si trova in minoranza all’interno dell’universo musulmano, e poter rivendicare la propria identità.
Lontano da noi occidentali secolari, questa esigenza religiosa ci ha spaventato, ma fortunatamente lo sforzo congiunto dei paesi colpiti, ha respinto questa ferocia, anche se con molto sacrificio umano – pensiamo solo ai nostri caduti in Iraq.
Oggi questa ferocia è un po’ meno “feroce”, sembra quasi che i Talebani siano più indirizzati agli incontri diplomatico-strategici, che non a pensare ad abbattere le statue dei Buddha, come fecero agli inizi degli anni 2000. Le TV di tutto il mondo, trasmettono questi incontri che tra uno sharp power e l’altro, sembra che si stia dialogando alla ricerca di una affermazione territoriale che possa garantire una qualche stabilità dell’area, collaborando con un know how esterno che consenta di crescere e non di restare legati ad un conservatorismo religioso, inutile.
Ed allora logico chiedersi…chi sono i burattinai oggi?
Ora che a Kabul, con la conclusione dell’operazione Aquila Omnia è calato per noi italiani il sipario, ma tra poche ore lo sarà anche per gli altri Paesi della coalizione, è giusto soffermarci senza retorica alcuna, su alcune cause che purtroppo hanno portato inevitabilmente a tutto questo.
La situazione afgana, i risvolti geopolitici attuali e quelli che si vedranno nei prossimi mesi o addirittura anni, al di là dell’idea comune sul fallimento della cordata USA/NATO, sono da ritrovare nelle radici storiche e antropologiche degli afghani stessi.
Nell’immaginario comune, probabilmente abituati soprattutto dalla recente storiografia a pensare all’Afghanistan come un popolo di leoni indomiti, capaci di mettere in fuga qualsiasi invasore che la storia ricordi, abbiamo perso un po il contatto con la realtà dimenticando che la presenza militare sul territorio è durata ben 4 lustri e non pochi anni.
Nel contempo, abbiamo anche erroneamente pensato che gli strascichi e l’oscurantismo della prima transizione talebana erano così difficili da cancellare, che i 20 anni non erano sufficienti a gettare le basi per una nuova era.
Al netto di tutte le ragioni più o meno giustificabili, possiamo tranquillamente dire che il detto “chi è causa del suo male, pianga se stesso”, si addice perfettamente al popolo afghano e soprattutto all’attuale situazione, per quanto hanno dimostrato negli ultimi due decenni.
Paesi come la Bosnia, il Kosovo, ed in genere l’area balcanica, sono usciti da una stato straziante e terrificante (abbiano dimenticato i campi di detenzione in Bosnia?), vivendo ancor oggi sotto l’ala protettrice di UE/NATO e UN, ma riuscendo a costruire uno scheletro istituzionale e burocratico tale da renderli attualmente Stati autonomi e sostanzialmente moderni.
In Afghanistan questo, salvo rarissimi ambiti, non è mai accaduto. Il campo più evidente che ha dimostrato una arretratezza profonda è rappresentato dagli apparati di sicurezza, completamente collassati con l’uscita degli Stati Uniti dalla missione Resolute Support.
Vent’anni di addestramenti, tempo, sacrifici umani, finanziamenti pubblici per costruire Forze Armate e di Polizia specchio di un Paese che non voleva crescere, ma che voleva succhiare il latte da un seno che ormai non poteva più dare nient’altro.
Il fallimento, anzi il collasso degli apparati di sicurezza e difesa afghani rappresentano la carta d’identità di un popolo che vive di ricordi, di epiche battaglie e memorie di guerrieri che ora non si rivedrebbero in questo Paese e nei suoi uomini. Nel 1943, i nostri nonni, i nostri genitori, quando i tedeschi ci posero davanti alla scelta di combattere con loro o di arrendersi, di tutta risposta si diedero alla macchia, dando vita a qualcosa che è rimasta alla storia come RESISTENZA per difendere il nostro Paese.
Fior fior di Ufficiali delle FF.AA./FF.PP. afghane addestrati nelle migliori accademie del mondo, davanti alla scelta di combattere con i talebani o la resa, hanno abbandonato le armi anziché scappare sulle montagne per combattere, ed oggi sono sparsi nei vari Hub di transito negli aeroporti di mezza Europa in attesa di trascorrere un felice futuro altrove.
Caro Afghanistan, non meriti nulla di tutto questo, non lo meritava la tua storia, le tue bellezze naturali, i tuoi tramonti e soprattutto i tuoi bambini, ma come ben sai, non si può aiutare chi non vuol essere aiutato o ancor meglio, non si può continuare ad aiutare qualcuno che permane nei suoi errori, mentre il resto del mondo va avanti.
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